UFFICIO NAZIONALE PER LE COMUNICAZIONI SOCIALI
DELLA CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA

Un occhio verso il cielo

Il contributo dei credenti a due anni da «Testimoni digitali»: come abitare il web e come portarvi il trascendente che libera, nella riflessione preparata per Avvenire da Chiara Giaccardi, Ordinario di Sociologia e Antropologia dei media all'Università Cattolica del Sacro Cuore. 
27 Aprile 2012
Mi è capitato recentemente di vedere dal vivo quello che è ormai diventato il simbolo della città di Chicago: il Cloud Gate, meglio noto come The Bean, il fagiolo. Si tratta di una grande struttura in ac­ciaio inossidabile, celebre opera del­l’altrettanto celebre scultore Anish Ka­poor. Collocato in posizione strategica nel Millennium Park, il 'fagiolo' ha un grande impatto visivo: la sua superfi­cie curva e liscia riflette il cielo e gli imponenti grattacieli circostanti, sfide prometeiche dell’uomo che ha rinun­ciato ai campanili, ma nello stesso tempo cattedrali laiche che non pos­sono non accompagnare lo sguardo verso l’alto.
E riflette anche le persone che si affol­lano intorno con le loro macchine foto­grafiche, e si fanno immortalare ac­canto, o sotto, que­sta scenografica 'porta' che con­giunge la città e il parco, la tecnica e la natura. Il confine tra la realtà e la sua immagine sulle pareti a specchio è molto labile, così come quella tra in­terno ed esterno dell’opera: le superfi­ci ricurve riflettono contemporanea­mente il dentro e i fuori, i grattacieli e le persone.
Ma la cosa che colpisce di più, stando all’interno della scultura, è ciò che si vede guardando verso l’alto: un cer­chio (che l’artista chiama omphalos, ombelico) nel quale si può contem­plare la propria immagine riflessa, in­capsulata nel 'ventre' dell’opera.
Questa esperienza mi è parsa una me­tafora efficace della rete, o almeno di quello che essa oggi può, o rischia di essere: una superficie liscia e conti­nua, senza delimitazioni tra dentro e fuori, che ci restituisce un’immagine del mondo e di noi che possiamo non solo guardare, ma anche toccare, ma che alla fine ci chiude in un cerchio autoreferenziale, in cui non vediamo altro che noi stessi. Tutto intorno a te, come recitava un celebre slogan pub­blicitario...
Ma c’è anche un’altro modo possibile di vivere la rete oggi. Un modo che ha cominciato a prendere forma nel di­battito pubblico e nella consapevolez­za dei tanti, nativi e immigrati, che si affacciavano affascinati e insieme preoccupati a questa 'estensione' del nostro mondo, esattamente due anni fa, con quell’evento pionieristico e co­sì 'generativo' che è stato il con­vegno 'Testimoni Digitali' (22-24 a­prile 2010).
Pionieristico per­ché si avvertiva l’urgenza di af­frontare, non co­me singoli ma co­me comunità di credenti, questo ambiente sempre più centrale, soprattutto per i giovani (Fa­cebook, in Italia, era esploso nel 2008). Un dibattito polarizzato tra tecnoen­tusiasti (la rete come portatrice di de­mocrazia, laboratorio di identità, re­gno delle relazioni finalmente libere dai vincoli spaziotemporali) e tecnoal­larmati (la rete come luogo di dop­piezza, che ci estrania dalla vita reale, che favorisce la costruzione di identità fittizie e simulacri di relazioni, trappo­la che ci risucchia in una dipendenza alienante) non pareva un buon punto di partenza per capire, senza pregiudi­zi, come affacciarsi al mondo digitale e valorizzarne le componenti umaniz­zanti. Così la Cei, con una lungimiran­za che si è rivelata veramente notevo­le, pensò di convocare a Roma studio­si di media, teologi e 'praticanti' che avevano già qualche esperienza da raccontare, per un momento di vera comunicazione, uno scambio coope­rativo dei rispettivi saperi ed esperien­ze, per trovare criteri di interpretazio­ne e orientamento, come momento di un cammino comune. Tanti aspetti sono emersi da li, che costituiscono altrettanti punti di non ritorno, orami acquisiti: il fatto che, come ogni me­dium, la rete non è uno strumento, ma un’estensione delle nostre poten­zialità conoscitive e relazionali, un ter­ritorio di esperienza, un ambiente; che il virtuale non è contrapposto al reale, ma lo esten­de; che la rete può essere un luogo per avvicinare i lonta­ni, e rompere i confini stretti delle nostre cerchie so­ciali abituali. Ma due cose a mio av­viso sono rimaste come pietre su cui tutto il ricco e vivacissimo cammino che da li è scaturito ('Abitanti Digitali' dell’anno successivo, 'Diocesi in re­te', Il nuovo corso Anicec e il conve­gno con gli animatori, i siti diocesani e tanto altro) ha potuto trovare una soli­da base di appoggio. La prima è che la rete non è solo un dispositivo tecnico da utilizzare, ma è un luogo antropo­logico da abitare. E abitare è il modo tipicamente umano, simbolico e non solo strumentale, di esistere. Ed è sta­to bello scoprirlo grazie alla ricerca sul modo in cui i giovani la 'vivono': è grazie a loro che questo aspetto cru­ciale è diventato chiaro.
La seconda riguarda il rapporto tra immanenza e trascendenza: è vero che la rete si presenta come un cer­chio magico che può contenere ogni cosa; come una 'abbondanza senza fine', é stata definita. Ma è anche vero che il desiderio di pienezza che essa accende non può trovare lì la sua ri­sposta, come ricordava padre Spadaro nella sua relazione, e che riusciamo a trarre il massimo dalla rete quando non ne facciamo un orizzonte assolu­to, ma apriamo, nella sua orizzonta­­lità, uno spiraglio che lasci entrare la luce della grazia. Due verità che, a di­stanza di due anni, si sono rivelate u­na sola: la rete può essere un luogo antropologico se e perché si apre alla trascendenza, a quel 'di più' che essa di per sé non può dare. E questo è il contributo u­manizzante che la voce dei cattolici può offrire a que­sto tempo.
Chiudo allora con un’altra immagine. In molti templi la sommità della cu­pola è aperta: un foro che si chiama o­culos, e che consente alla luce di en­trare, alla terra di restare in comunica­zione con il cielo. La fede può essere quella forza che 'buca' la rete, e ci li­bera dalla trappola dell’autoreferen­zialità e dallo sguardo su noi stessi e sul nostro 'ombelico', per darci un 'occhio' capace di ricevere la vera lu­ce. Solo così saremo veramente in co­munione, e non solo in connessione, tra noi.
 
Chiara Giaccardi