L’ambiente digitale non è solo un nuovo contenitore per vecchi contenuti, ma è un contesto inclusivo in cui siamo immersi, e che ci costringe a ridefinire i nostri messaggi, ciò che pensiamo valga la pena comunicare, nei nuovi linguaggi, tenendo conto delle loro caratteristiche: istantaneità, immersività, interattività, multimedialità, orizzontalità e molte altre. Non tenere conto del fatto che «il medium è il messaggio», che se vogliamo comunicare dobbiamo sfruttare le potenzialità e limitare i rischi dell’ambiente in cui ci muoviamo, che oggi è l’ambiente digitale, sarebbe come rassegnarsi all’afasia e all’incomunicabilità.
D’altra parte, muoversi consapevolmente nel nuovo ambiente non significa accettarne le logiche in modo problematico, e soprattutto non significa inseguire ingenuamente le mode dettate da chi in questo ambiente si muove senza scrupoli e senza interesse per l’umano, ma solo con logiche strumentali. A proposito dei nuovi media, si legge negli Orientamenti pastorali Cei 2010-2020: «Essi vanno considerati positivamente, senza pregiudizi, come delle risorse, pur richiedendo uno sguardo critico e un uso sapiente e responsabile» (n. 51).
Se i criteri di successo nella rete sono di tipo quantitativo, sta alla sensibilità di ciascuno in generale, e della Chiesa in particolare, cogliere i bisogni individuali che scompaiono dietro ai comportamenti conformi, intercettare le insoddisfazioni per le risposte preconfezionate e banali che così facilmente e abbondantemente la rete rende disponibili e offrire contesti di ascolto e di vicinanza; tutto questo sfruttando il carattere partecipativo dell’ambiente digitale per dar voce a letture della realtà, prospettive, desideri e immaginari che siano diversi da quelli improntati all’immanenza totale, al cinismo, all’idolatria, alla strumentalità e all’ipocrisia di tanta parte della cultura contemporanea.
Questo significa, da parte della Chiesa, prendere la parola in modo compatibile con i nuovi linguaggi: non in modo intellettualistico e astratto, ma piuttosto basato sulla testimonianza; non autoritario ma autorevole, perché capace di parlare all’umano nei suoi bisogni di senso inespressi ma profondi; non moralistico né tanto meno politico, ma etico, orientato al vivere bene insieme, nel rispetto integrale di ciò che ci costituisce come esseri umani, nell’accoglienza e nell’amore per la vita in tutte le sue molteplici forme (e non solo in quelle che corrispondono agli standard fissati dalla cultura contemporanea).
Significa proporre una parola non di giudizio ma di accoglienza, di vicinanza, di accompagnamento, di testimonianza di una verità che è credibile perché passa dalla vita e la illumina, attirando chi della luce ha bisogno; una parola poetica e non tecnica, che invita e non impone, che cerca di generare sapendo che oggi non è più pensabile limitarsi a «trasmettere » un messaggio.
Dentro l’ambiente digitale la Chiesa può contribuire a rinnovare la cultura, ma anche rinnovarsi. Può parlare di sé in prima persona, anziché farsi raccontare da altri in modo strumentale, ma deve anche meglio imparare ad ascoltare e a far dialogare le sue diverse membra, a dare spazio alle voci di chi in essa si riconosce, a promuovere un nuovo stile educativo basato sull’incontro, l’accoglienza, l’ascolto, la con-generazione di un modo di abitare questo presente così complesso e ricco di sfide, ma anche così ricco di opportunità per un nuovo umanesimo digitale. Per questo, «l’impegno educativo sul versante della nuova cultura mediatica dovrà costituire negli anni a venire un ambito privilegiato per la missione della Chiesa».