di Giorgio Ferrari
Inviato speciale ed editorialista di Avvenire nonché autore di saggi storici e di reportage dai teatri di guerra
Arrivammo sul luogo del bombardamento alle prime ore del pomeriggio. Gli F16 di Israele avevano colpito alcuni edifici, tra cui una scuola. C’erano dei morti dovunque, macerie, fumo. I soccorritori della protezione civile mescolati ai volontari della mezzaluna rossa si facevano strada fra i palazzi vulnerati dalle bombe cercando i sopravvissuti. Ma era soprattutto la scuola l’edificio colpito con maggior intensità. Un’astuzia degli hezbollah, che allocavano in prossimità di scuole e ospedali le loro rampe con i missili forniti da Teheran e destinati a colpire l’Alta Galilea. La stessa tecnica che usa Hamas a Gaza, allo scopo di suscitare la reazione militare dell’aviazione di Tel Aviv in modo da provocare il maggior numero possibile di vittime innocenti: le guerre che non si possono vincere sul terreno di battaglia si vincono spesso su quello della propaganda, e in questo Hezbollah e Hamas sono maestri.
Sapevo mentre camminavo fra montagnole di mattoni, tramezzi polverizzati, frammenti di cemento dalle armature ritorte nell’aria che anche quel pomeriggio, in quello spicchio di Libano in guerra con Israele, non avrei visto uno spettacolo consolante. Ma ancora non sapevo cosa mi attendeva. Finché non mi avvicinai a un gruppo di soccorritori. Erano tutti attorno a un bimbo, avrà avuto una decina d’anni, il cui bacino, le gambe, le estremità erano rimaste sotto uno zoccolo di calcestruzzo. Il piccolo era già morto, ma i volontari libanesi cercavano di estrarlo dalle macerie per poterlo seppellire. Il suo corpicino si ergeva inspiegabilmente eretto, come in una tragica parodia della piccola vedetta lombarda deamicisiana. Uno dei soccorritori provò a forzare le macerie che lo trattenevano, sollevandolo per le ascelle. Il corpicino gli rimase in mano, ma solo a metà. Il resto del bimbo era rimasto prigioniero del cemento. La sua colonna vertebrale ondeggiava come l’asta di una bandiera. L’uomo che l’aveva estratto dalle macerie si ritrovò fra le mani quel fagotto invertebrato senza nome. Piangeva. E piangevano anche gli altri soccorritori.
Le rare volte che racconto a qualcuno questa vicenda concludo regolarmente con questa domanda: “Secondo te io sono rimasto lo stesso di prima dopo aver visto quella scena?”.
La guerra ti cambia. Tutte le guerre ti cambiano, anche se sei un osservatore che si presume neutrale, che poi neutrale non lo sei mai, perché come aveva ben compreso il grande inviato di guerra Ryszard Kapuscinski finisci sempre per diventare parte del fronte in cui ti trovi. Così anche tu diventi quel bambino, anche tu sei quel corpicino senza nome e senza più ossa che tremula fra le mani impotenti dei soccorritori. Questo non ti impedisce di scrivere il tuo reportage, di cercare di comprendere i torti e le ragioni, di sfumare su certi orrori che non è necessario infliggere al tuo lettore (la storia che state leggendo io non l’ho mai pubblicata su Avvenire, me la sono tenuta per me), ma l’importante è che tu sei cambiato, che tu stai cambiando.
Quello che fai fatica ad ammettere è che anche l’orrore della guerra fa parte del mondo e averne assistito in prima persona ha modificato certe predisposizioni, certi pregiudizi, costringendoti a un’essenzialità sottile come un osso di seppia. E a uno sguardo sull’umanità che giorno dopo giorno si va colmando di una dolente compassione ma anche di un’inspiegabile ricchezza. E finalmente viene la sera, dopo che hai terminato di scrivere la tua corrispondenza e stai cenando in un posto relativamente sicuro con accanto un collega inglese o americano che fatica a stiracchiare un sorriso mentre alza il calice del buon vino libanese, e tu credi di aver lasciato alle spalle la guerra e le sue conseguenze, il viso di quel bimbo ti corre incontro, con la sua tragica normalità. A dirti che anche lui adesso fa parte di te. Tu sai che ne vedrai altri di volti come quello, che non era il primo e non sarà l’ultimo. E che a tutti però, in qualche modo, qualcosa devi.