UFFICIO NAZIONALE PER LE COMUNICAZIONI SOCIALI
DELLA CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA

Cittadini e politica: quale ruolo per il web?

Sul rapporto tra i politici e i social network e sull’impatto che tutto ciò provoca sul modo tradizionale di “fare politica”, il Sir ha rivolto alcune domande ad Adriano Fabris, filosofo morale dell’Università di Pisa. "Ci sono opportunità che vengono aperte per coloro che sanno sfruttarle, ma non bisogna mitizzarle"...

 
14 Gennaio 2013
Dalle piazze alle autostrade digitali. Ecco come sono cambiati i “luoghi” della politica al tempo dei social network. Sul rapporto sempre più stretto tra i politici e i social network – il caso più recente, in Italia, è quello del presidente Monti, appena “sbarcato” su Twitter – e sull’impatto che tutto ciò provoca sul modo tradizionale di “fare politica”, Maria Michela Nicolais, per il Sir, ha rivolto alcune domande ad Adriano Fabris, docente di filosofia morale all’Università di Pisa.

Nell’era del 2.0, la politica si fa sui social networks, non solo sui giornali o in tv…
“È sicuramente un dato di fatto che la presenza sui social network cambia, aumenta, potenzia la possibilità di raggiungere lettori ed elettori, soprattutto per quanto riguarda le nuove generazioni: l’ha capito subito e molto bene Obama, che ha interpretato nella maniera più fortunata durante la sua prima campagna elettorale l’utilizzo di mezzi come Twitter. È altrettanto vero, però, che l’utilizzo di determinati media non ha soppiantato e sostituito gli strumenti utilizzati in precedenza. Il discorso, quindi, è più complesso di quanto sembri: da un lato, non si può prescindere dall’utilizzo dei social network per presidiare tutta una particolare fascia di persone interessate e per occupare un certo tipo di media. Ecco perché anche in Italia, da buoni ultimi, molti nostri politici hanno fatto questa scelta. Dall’altro lato, l’utilizzo dei social non vuol dire abbandonare il presidio di altri mezzi di comunicazione, tant’è vero che chi fa politica, in questo periodo di campagna elettorale, continua a essere molto presente anche in tv”.

Ma il “virtuale” come cambia la politica?
“Per rispondere a questa domanda, può essere utile esaminare la tipologia dei social network che vengono utilizzati in questa campagna elettorale. C’è chi usa molto il web, ma nella maniera più pervasiva e intensa, attraverso veri e propri video proclami, lasciando poco spazio all’interattività; chi utilizza Facebook per privilegiare l’immediatezza, la pariteticità e la reciprocità; chi sceglie invece Twitter e la sua struttura a stella per poter dare ampia diffusione al messaggio, operando però una selezione e un’analisi dei vari temi, grazie al dislivello tra chi comunica e chi risponde. Mentre Facebook funziona molto bene dal basso, come ha dimostrato la nascita della cosiddetta ‘primavera araba’, Twitter sembra essere più funzionale ai leader nei rapporti personali con i loro potenziali elettori. Basti pensare, un esempio per tutti, ad Obama, che dopo la sua prima vittoria ha ringraziato tutti i suoi sostenitori, ad uno ad uno, con un messaggio sul telefonino: un impatto psicologico fortissimo, che ha dato l’impressione di un rapporto personale tra il presidente americano e il suo bacino elettorale”.

I social, dunque, favoriscono la “personalizzazione” della politica?
“Oggi la personalizzazione della politica è collegata al fatto che c’è una persona che ci mette la faccia, magari facendo persino violenza alla propria natura. Questo tipo di personalizzazione è l’altro lato del liberismo: consiste nella capacità di mettersi in gioco, di rischiare anche in prima persona, proprio perché non c’è più un paracadute che ci salva. Certo, di uno stesso account su Twitter ce ne possono essere sei o sette, alcuni falsi, altri burleschi o irriverenti: una volta individuato quello autentico, però, si verifica un’identificazione del rapporto, resa possibile proprio dal virtuale”.

Come spiega le reazioni contrastanti che accompagnano ogni nuovo “sbarco” di un importante personaggio pubblico su Twitter?
“Penso che siano legate a certi pregiudizi. Nella misura in cui, cioè, determinati personaggi politici vengono visti come tradizionali, si stenta a percepire come la tradizione possa essere mediata dalle nuove tecnologie. Per alcuni è addirittura impensabile che una persona di una certa età possa utilizzare strumenti tecnologici in cui certamente si dimostrano molto più abili i suoi nipoti. Nel caso dell’arrivo del Papa su Twitter, poi, qualcuno ha messo in campo un’operazione ideologica ancor più censurabile: partendo dal presupposto che la Chiesa sia non qualcosa di semplicemente tradizionale, ma di vecchio, la si è considerata incompatibile con l’uso delle nuove tecnologie, le quali per definizioni sono nuove. Si tratta di un presupposto tutto da rivedere, visto che è stata proprio la Chiesa, da Paolo di Tarso in poi, a dimostrare di saper utilizzare molto bene i linguaggi propri del suo tempo, facendone un’occasione di evangelizzazione”.

Si può dire che i social favoriscano, di per sé, la partecipazione dei cittadini alla cosa pubblica? C’è un legame diretto, e senza equivoci, tra Internet e la democrazia?
“Magari! Ci sono opportunità che vengono aperte per coloro che sanno sfruttarle, ma non bisogna mitizzarle: vorrebbe dire collegare necessariamente l’uso di un determinato strumento tecnologico a un incremento di democrazia. È vero, infatti, che la partecipazione con Internet è resa più facile perché le possibilità vengono moltiplicate, ma occorre chiedersi che tipo di comunicazione sia. Quella di Internet è la partecipazione virtuale di chi può mandare un messaggio in bottiglia, ma può darsi che qualcuno risponda oppure no. Sul web c’è poca fatica nella gestione del rapporto, mentre la costruzione della democrazia richiede la mediazione, e dunque molta fatica”.