UFFICIO NAZIONALE PER LE COMUNICAZIONI SOCIALI
DELLA CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA

Comunichiamo, ci aspettano

L'intervista a monsignor Domenico Pompili, vescovo di Rieti e neo presidente della Commissione episcopale per la cultura e le comunicazioni sociali.
29 Maggio 2018

Non smettere di comunicare, mai. Farlo con tutti gli strumenti e i linguaggi a disposizione, trattati con «simpatia critica». E soprattutto rimettere a fuoco che vale la pena comunicare se al centro c'è «l'essenziale, cioè l'esperienza evangelica». L'assemblea del nostro episcopato è appena finita, e gli spunti emersi sul tema che ne ha costituito l'asse portante - «Quale presenza ecclesiale nell'attuale contesto comunicativo» - vengono riassunti nel comunicato finale puntando sulla sola cosa che conta: la trasparenza del messaggio. Nominato presidente della Commissione episcopale per la cultura e le comunicazioni sociali, il vescovo di Rieti monsignor Domenico Pompili - già direttore dell'Ufficio Cei - deve ora far passare i contenuti del confronto tra i vescovi nel vivo della comunità ecclesiale italiana.

Con quali idee escono i vescovi italiani dall'assemblea che ha riflettuto sulle sfide pastorali della comunicazione nell'era digitale?
La riflessione del professor Pier Cesare Rivoltella che ha delineato il nuovo contesto comunicativo in cui siamo immersi ha avuto il pregio di far crescere la consapevolezza che la storia della comunicazione inizia nel momento del passaggio dalla fase orale a quella scritta e continua fino a noi, oggi. Anche la rivoluzione digitale va inquadrata in questo contesto, che sta modificando le persone, le relazioni, l'informazione. Accanto a questo approccio realistico si è fatta strada la convinzione che la Chiesa non può esimersi dal contaminarsi con i nuovi linguaggi, perché lì trova la gente a cui annunciare il Vangelo.

Che messaggio possiamo far arrivare nelle parrocchie?
I media siamo noi. Anche se qualche volta possiamo sembrare sopraffatti dalle informazioni, resta vero che la formazione ai nuovi linguaggi resta decisiva. Anche perché né la famiglia né la scuola riescono a offrire percorsi utili che non siano generiche informazioni.

Come cambia il profilo dell'animatore della cultura e della comunicazione, servizio ecclesiale descritto ormai 14 anni fa dal Direttorio Cei?
La Chiesa italiana nel panorama europeo vanta un'apposita riflessione su «Comunicazione e missione» che rivela la sua attenzione di lunga data a questa dimensione. L'animatore addirittura è stato pensato come un soggetto pastorale che faccia lievitare all'interno della comunità cristiana la qualità della comunicazione. Il suo compito non cambia nella sostanza. Certo, un animatore oggi deve essere uno che abitualmente vive nel mondo digitale e sa sottrarsi alle pretese egemoniche di un mondo che lascia poco tempo per pensare e per leggere, ma sa al contempo valorizzare le infinite possibilità che la Rete offre per dare cittadinanza al Vangelo e alla sua testimonianza nella nostra società.

Perché fino a oggi l'animatore della cultura e della comunicazione ha faticato ad affermarsi, malgrado il fatto che la comunicazione in questi anni sia esplosa fino a diventare onnipresente?
Per due motivi. Per un verso perché si derubricano i media a strumenti pensando di poterli facilmente manipolare, ma il rischio è che ne siamo noi piuttosto modificati. E poi perché si ritiene che si tratti comunque di una dimensione accessoria rispetto alla vita, mentre in realtà la vita scorre attraverso il linguaggio. Per questo occorre investire di più, specie tra i giovani, in una comunicazione che partendo dalla realtà aiuti a consolidare il dato, per lo più solo presupposto, della comunione.

Che missione hanno oggi i mezzi di comunicazione promossi dalla Chiesa italiana? Come, e perché, renderli presenti nelle parrocchie?
La missione è quella di rendere presente la Chiesa nel cuore di una società che tende a relegare l'esperienza religiosa a qualcosa di privato e comunque periferico. Naturalmente i media ecclesiali non devono fare propaganda ma entrare dentro la conversazione pubblica offrendo un altro punto di vista, storie concrete, occasioni di contatto. Per far crescere la presenza dei media ecclesiali ci vuole da un lato che questi siano di per sé interessanti e provocatori e dall' altro occorre una crescita del senso della missione che riguarda tutti. Spesso siamo troppo pudichi nel raccontarci anche quando avremmo qualcosa di interessante da dire. Certo meglio di tanto narcisismo, ma la fede non è mai solo per se stessi.

Com'è stata l'esperienza dei 'tavoli' per confrontarsi sul tema dell'assemblea, e cosa è emerso dal confronto?
È stato un confronto vivace. I vescovi hanno raccontato le loro fatiche, ma anche le loro esperienze positive, soprattutto in riferimento a come i media tradizionali (giornale cartaceo, radio, televisione) siano stati messi in crisi dall'avvento delle nuove tecnologie. Non mancano però esempi virtuosi di integrazione che aiutano a sperare.

Nel comunicato finale si parla dell'importanza di far emergere dalla comunicazione della Chiesa l'essenziale. In cosa consiste?
Il nocciolo della Chiesa è il suo riferimento al Vangelo sine glossa. Penso che l'essenziale sia riuscire a introdurre nella comunicazione diffusa fatti di Vangelo che aiutino a superare questo senso di frustrazione e di delusione che si taglia a fette nel nostro Belpaese.

Assumendo la presidenza della Commissione, che impegni vede nella sua agenda di lavoro?
L'impegno prioritario è - sulla scorta dell'assemblea - alimentare la ricca esperienza ecclesiale nella comunicazione e aiutare a declinarla dentro ogni realtà, anche la più piccola.
(Francesco Ognibene)

da Avvenire del 29 maggio 2018, pag. 26