UFFICIO NAZIONALE PER LE COMUNICAZIONI SOCIALI
DELLA CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA

Copercom dopo Parigi: prosegue il dibattito

Prosegue, con l’intervento di don Gaetano Farinelli, presidente dell’Associazione Macondo, la riflessione a più voci promossa dal Copercom sul tema della responsabilità della comunicazione, anche cattolica, dinanzi all’offensiva del terrorismo e allo stato di guerra incombente in Europa. 
2 Dicembre 2015

Prosegue, con l’intervento di don Gaetano Farinelli, presidente dell’Associazione Macondo, la riflessione a più voci promossa dal Copercom sul tema della responsabilità della comunicazione, anche cattolica, dinanzi all’offensiva del terrorismo e allo stato di guerra incombente in Europa. 

 

Tra competizione e solidarietà  
di Gaetano Farinelli
Presidente di Macondo, associazione che promuove lo scambio e il dialogo tra i popoli
Aggiungo un mio piccolo contributo alle tante voci che si alzano, o si abbassano, o suggeriscono piano,  in questi giorni che fanno seguito alle stragi di venerdì tredici novembre a Parigi. Siamo passati dall’esodo biblico degli stranieri che arrivano in massa via terra e via mare in Turchia, in Europa, che tante discussioni e polemiche, tra accoglienza e respingimenti, hanno sollevato tra i mezzi di comunicazione e tra i vari schieramenti, alla grande preoccupazione che anima in questi giorni le nostre popolazioni.
La prima voce che accogliamo è il preoccupato ritornello, che vuole sempre mettere una pietra miliare ad ogni avvenimento importante. E così si dice che “dopo questo episodio le cose cambiano e noi non saremo più gli stessi. I nostri comportamenti quotidiani, le nostre reazioni saranno completamente diverse”. 
Ed invece poi che cosa succede? Che gli episodi drammatici non si fermano, e noi ci troviamo con le stesse parole, che sono le nostre e sono quelle degli altri. E quando gli episodi esplodono vicino a noi, le reazioni sono ancora più emotive. Quando poi toccano il nostro sangue, allora non c’è argine alle parole e alle immagini. 
Gli episodi di terrorismo sono tanti;  basta pensare al Kenya, alla Nigeria, alla Tunisia, alla Francia. Ma se riandiamo poco più  indietro, troviamo: Spagna 2004, Inghilterra 2005 e prima ancora Stati Uniti d’America, tutti di matrice islamica e il clima di tensione cresce. Oggi tocca alla Russia e alla Francia in modo particolare. Ma continuano episodi gravissimi anche in Africa, vedi il Mali. 
La presenza e l’espansione del califfato islamico, dell’Isis, che provoca e coordina direttamente o indirettamente le cose, ha creato un’ulteriore pressione  psicologica,  che si aggiunge  alle emigrazioni di massa,  determinate da cause varie. In questa situazione generale, di non equilibrio, di non armonia, si inseriscono  i dialoghi, le discussioni dei “talk show”, che precedono le decisioni  degli Stati. E ogni parte dà la sua interpretazione dei fatti e motiva le decisioni da prendere, che sono in linea o in opposizione a quelle dell’esecutivo. E corrono le notizie vere e le bufale. 
Ma le descrizioni degli episodi si nutrono e nutrono anche l’immaginario collettivo di quello che abbiamo depositato nella nostra memoria, tipo la Guerra santa dell’Islam. E allora ogni musulmano diventa un possibile sospetto. E le emigrazioni, si dice, diventano un pretesto per le infiltrazioni dei musulmani che indicono la “guerra santa”.
Noi abbiamo esperienza del terrorismo di matrice interna al tempo delle Brigate Rosse. Ed anche allora le posizioni dei mezzi di comunicazione e dei politici erano diverse ed era facile mettere sotto accusa quanti erano di matrice comunista o simpatizzanti della rivoluzione socialista e comunista.
Tanti fuochi si accendono, in Africa e in Europa, e non sono i fuochi degli Scout.  Sono fuochi improvvisi,  che producono lutti e ansie, confronti e odi senza fine. Ogni episodio scatena paure, polemiche, rappresaglie, interventi di polizia, azioni di politica e interventi di guerra. E anche la stampa insegue gli avvenimenti, interroga i testimoni, avvicina gli storici, gli intellettuali, i politici. E raccoglie le voci, le grida.  Diventa strumento di informazione dettagliata e di sempre nuove prese di posizione. Raccoglie le decisioni, le polemiche, apre a sua volta le polemiche, le divisioni, i sospetti, oppure ricuce e apre nuovi spiragli di dialogo. Insegue la curiosità del lettore oppure gli propone visioni più ampie, che fanno tesoro della storia e della memoria recente. Il campo dell’informazione, in questi frangenti, è amplissimo e le pagine del giornale,  le rubriche televisive e le pagine internet  si riempiono di notizie e di considerazioni,  di racconti e di riflessioni, di analisi e di pressioni e di vignette, su chi deve prendere decisioni importanti.
Anche io sono preso tra l’emozione e la riflessioni e penso alle guerre presenti e passate. Ognuna ha una sua storia e ciascuna crea le sue opinioni. Tutte le guerre lanciano le loro luci sul presente, i loro bagliori,  e in parte trattengono le potenze civili e  militari dall’agire in fretta. In tutto questo i mezzi di comunicazione hanno un compito importante, la loro influenza nei regimi democratici ha la sua importanza, assieme ai grandi interessi di politica e di economia, che hanno radici lontane, nelle guerre di dominio e oggi nella competizione economica.
Inoltre debbo scrivere che i grandi avvenimenti misurano la stabilità, la forza, la compattezza, di un popolo;  mettono al vaglio i valori vitali di una nazione. Negli ultimi venti anni abbiamo attraversato diverse situazioni   difficili: la crisi finanziaria, le immigrazioni di massa da paesi in disfacimento o da paesi in guerra o dai paesi poveri, e poi le guerre in Europa, in Africa e Asia, guerre più o meno dichiarate, con varietà di intenti. Com’è stata la reazione del popolo italiano? Varia, complessa, contraddittoria: di paura e di coraggio,  di accoglienza e di rifiuto, di tolleranza e di intolleranza, ma anche di grande depressione, perché si è persa la fiducia e la speranza di futuro; e si pensa ancora che sia più utile la competizione piuttosto della solidarietà.
Oggi siamo, noi cittadini, più proiettati sull’esterno, perché abbiamo perso interiorità. Siamo in attesa di una soluzione solo dagli altri: con la caduta delle mura, le nostre città non si sono aperte, ma sono scoppiate, frammentate. E abbiamo perso l’orientamento. Siccome non ci riconosciamo più tra di noi e manco ci conosciamo, speriamo che altri garantisca la nostra sicurezza, perché ogni sconosciuto per noi è un sospetto. Abbiamo accettato o subito il progresso e il consumo e ora non riusciamo a rinunciare a nulla. Cerchiamo di mantenere le posizioni come in una trincea e intanto ci bombardano e infestano i nostri nascondigli.
La storia e la stampa ci ricorda e ci offre uomini positivi: Gandhi, Mandela, Martin Luther King, Aldo Capitini, La Pira, Giovanni XXIII, oggi Papa Francesco.  Quando questi uomini passano, muoiono, noi restiamo al buio.  Di fronte alle grandi sciagure un tempo s’invocavano i santi e si faceva penitenza, si ricorreva alla preghiera.  Ma anche quelli erano gesti esterni. Di che cosa si nutrivano gli uomini che abbiamo conosciuti, gli uomini di pace? Interiorizzavano i valori che oggi a noi sfuggono: la vita, la pace, la giustizia, la tolleranza e tante altre voci che per noi sono diventate parole. Quegli uomini hanno lasciato il segno, ma noi li abbiamo lasciati morire e non abbiamo raccolto la loro eredità.
In questa situazione si inseriscono i mezzi di comunicazione. Con le loro testate, le proprietà private e pubbliche. Con le loro analisi e con le loro proposte, che rispondono ad una domanda di verità, ma anche di paura, debbono rispondere alla domanda semplice, di salvare la nostra pelle, a domande più complesse, di chi non vuole perdere nessuno per strada;  si trovano di fronte a chi pensa solo alla corsa verso il consenso, verso il potere e offrono risposte conseguenti, recalcitranti o suadenti. 
Si dice a volte che i mezzi di comunicazione dovrebbero recuperare quel che ci manca, diventare luoghi di educazione e formazione.  Lo possono, lo fanno?
Sappiamo che molti sono i passaggi, i filtri che la comunicazione attraversa prima di arrivare a noi e sono i valori che la famiglia ha dato, che la scuola, la religione, la politica offrono; sono i luoghi educativi che hanno formato il cittadino e i non luoghi che hanno formato il consumatore.
In questa complessità vitale s’inserisce e si fa strada la comunicazione pubblica e privata. L’informazione dovrebbe toccare non solo la pancia, ma anche la testa e dunque avere il senso del futuro e non solo di un avvenire programmato in precedenza. Avere il senso del tempo e delle capacità di reazione del lettore e dello spettatore.
Quale sia la funzione dei mezzi di comunicazione lo sappiamo tutti ed è l’informazione puntuale di quanto avviene, un’informazione oggettiva. Ma quale sarà l’informazione oggettiva, quando ognuno ha la sua interpretazione “soggettiva” delle cose e segue il suo particolare?  
Se la tensione è alta, non è il caso di aumentarla; se il rischio del sospetto verso persone o gruppi è alto non è bene acuirlo; e questi sono piccoli accorgimenti, che non sempre vengono seguiti. E non perché manca il buon senso, ma perché rientra il calcolo, la competizione, il dominio sull’altro. E intanto le domande aumentano e si accavallano le risposte.
E già vedo che lo spettro della luce e delle ombre della comunicazione  si allarga.  Altre voci si aggiungono. Anche la mia voce si perde tra le voci.  Oggi purtroppo l’abbondanza di parole e d’immagini non è sempre positiva.  Ed è un poco come l’abbondanza di oggetti nella nostra società di consumo. Siamo consumatori, anche in tempo di guerra. Molti parlano e pochi ascoltano. E non serve dire: noi e loro, noi bravi e loro, mah!  Perché già troppo alti sono i muri che ci dividono; speriamo che il cielo resti più alto!
 
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