Con una riflessione di Francesco D'Agostino, presidente dell’Unione giuristi cattolici italiani, prosegue il dibattito lanciato dal Copercom sul tema della comunicazione, anche cattolica, dinanzi allo stato di guerra e sulla responsabilità che investe chi la racconta, con parole e immagini.
di Francesco D'Agostino, presidente dell’Unione giuristi cattolici italiani
Politici, filosofi, teologi, sociologi, demografi, etnologi… chi non è ancora intervenuto sui media, dopo gli attentati del 13 novembre, per spiegarne le cause prossime e remote, gli effetti immediati e di lungo periodo e soprattutto per mettere a fuoco il senso umano, religioso, ideologico, esistenziale di quegli avvenimenti così terribili? Siamo stati tutti letteralmente sommersi da interventi, interviste, dichiarazioni pubbliche e private, opinioni provenienti dal mondo accademico e dalla gente comune, promesse, impegni, inaspettate minacce di guerra e nuove aperture al dialogo. L’unica voce veramente chiara che abbiamo ascoltato, e totalmente fuori dal coro, è stata quella di Papa Francesco: una parola chiara, perché intenzionalmente non programmatica, ma mistica (per chi sia stato in grado di ascoltarla senza pregiudizi), così come fondamentalmente e prioritariamente è mistico e non programmatico l’annuncio evangelico.
C’è una sola categoria che non ha partecipato a questo dibattito: è quella dei giuristi. È come se fossero divenuti tutti improvvisamente afoni (tanto che anche quei pochissimi che hanno parlato non sono riusciti a farsi ascoltare da nessuno). È come se i terribili eventi parigini li avessero definitivamente convinti della loro superfluità e più in generale della superfluità del diritto come sistema di giusta garanzia dell’ordine sociale. Le ragioni di questo rassegnato atteggiamento sono facilmente individuabili, nella crisi che sta travolgendo tutti i concetti giuridici fondamentali. La qualificazione giuridica della guerra è pressoché evaporata e con essa quelle deboli, ma preziose garanzie, che il diritto di guerra riusciva ad offrire ai civili non combattenti. Categorie politico-sociali, di immenso rilievo giuridico, come quella dello Stato, sono divenute evanescenti e assolutamente inadeguate a interpretare la realtà odierna (come dobbiamo qualificare il “Califfato”? È uno Stato? E se non lo è, cosa propriamente è?). Organizzazioni giuridiche internazionali, a partire dall’Onu, sono sbiadite e la loro autorevolezza è ridotta praticamente a zero. Il terrorismo, che generazioni di giuristi hanno cercato di ricondurre all’interno del paradigma del diritto penale, sfugge ormai a qualsiasi tentativo di qualificazione giuridica: esso si muove più che sul piano politico-sociale (un piano controllabile da parte del diritto, anche se a fatica) sul piano della psicologia delle masse, su quello delle emozioni collettive, delle intimidazioni e del terrore, tutte dimensioni sulle quali il diritto non ha alcuna presa. Sembra che il nostro tempo oltre che post-moderno, come da anni va di moda qualificarlo, debba essere etichettato come post-giuridico.
Queste considerazioni non vanno interpretate come un requiem per il diritto, ma all’opposto come un pungolo, perché il diritto riconquisti orgogliosamente il ruolo che è sempre stato suo e che non può essere affidato ad altre pratiche sociali. La dissoluzione del diritto non può infatti che implicare il venir meno di ogni freno alla diffusione della violenza e, cosa forse ancor più grave, una rischiosissima confusione tra due dinamiche che sono agli antipodi, malgrado la loro apparente affinità: quella della violenza, sempre illegittima, e quella della forza, legittimata invece dal diritto, in nome della giustizia. La lotta contro il terrorismo è un dovere assoluto, a condizione però che questa lotta sia condotta con fermo senso della misura, ricorrendo all’uso della forza, cioè secondo giustizia, e ripudiando ogni tentazione di cedere a forme, ancorché efficienti, di contro-violenza, priva di ogni misura. Il terrorismo non è un prodotto della follia, della belluinità, dell’accanimento ideologico, dell’assurdo sempre immanente nelle cose umane: è il vertice della violenza, e quindi dell’ingiustizia, di quella ingiustizia che inquina e deforma fin dall’inizio (dall’epoca di Caino e Abele!) la storia umana. A chi può spettare, se non ai giuristi, pronunciare a voce alta una parola di giustizia, per riportare ordine nel mondo?
Quanto detto non implica di certo che sia compito esclusivo dei giuristi elaborare progetti di soluzione di conflitti, così terribili come quelli che oggi lacerano il mondo; implica però che nessun tentativo di soluzione dei conflitti possa essere credibile e avere un effetto pacificante se non sia compiuto nel nome della giustizia: la giustizia, infatti, pur se non rappresenta il vertice dell’esperienza umana (che coincide non con la giustizia, ma con l’amore) ne rappresenta però la condizione minimale di possibilità. Riappropriarsi di questa essenziale verità è il compito più urgente che oggi spetta a tutti i giuristi di buona volontà.
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