UFFICIO NAZIONALE PER LE COMUNICAZIONI SOCIALI
DELLA CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA

Cristiani, il dovere di comunicare

Compie trent’anni l’Ufficio per le comunicazioni socialia dell’arcidiocesi di Milano, fondato nel 1983 dal cardinale Car­lo Maria Martini. Fu il primo in Italia. Primo diret­tore, allora, il 42enne don Roberto Busti, oggi  ve­scovo di Mantova. Avvenire ha raccolto la sua testimonianza e le sue riflessioni.
17 Dicembre 2013
Da trent’anni a servizio dell’arcidiocesi. E­ra il 24 gennaio 1983, e il cardinale Car­lo Maria Martini istituiva l’Ufficio per le comunicazioni sociali. Il primo in Italia. Pochi giorni dopo, il 9 febbraio, nominava suo diret­tore il 42enne don Roberto Busti. L’attuale ve­scovo di Mantova.

Eccellenza, prima di allora come comunicava la Chiesa milanese?
Esisteva un ufficio stampa, ma più che curare i rapporti con gli strumenti di informazione, si occupava delle produzioni diocesane interne. Con l’arrivo del cardinale Martini il problema della comunicazione emerse come esigenza sen­tita da tutto il clero ed espressa in due sedute del Consiglio presbiterale dioce­sano.

Perché parla di pro­blema?
Si trattava di mette­re ordine e di stabi­lire collaborazione tra i diversi stru­menti di comunica­zione esistenti: car­ta stampata, radio, sale della comunità. Il passo era difficoltoso, per questo si decise che tutti i responsabili dessero le dimissioni per permettere all’arcivescovo di o­perare un nuovo riassetto.

Lei fino ad allora aveva guidato le sale della co­munità...
E infatti mi dimisi. Ma subito fui chiamato a stu­diare il riassetto del comparto comunicazione. Non fu cosa semplice, come ogni cambiamen­to che scuote le tradizioni. Ci vollero mesi e pro­poste diverse, fino a quando il cardinale prese la decisione di costituire l’Ufficio e di affidarlo a me.

Quale fu il primo passo?
Organizzare il lavoro dei vari strumenti di co­municazione diocesani in modo unitario, com­plementare e ordinato, per comprendere me­glio il cammino della Chiesa ambrosiana. Così facendo i programmi pastorali iniziavano ad as­sumere una dimensione che andava ben oltre i confini diocesani. Nello stesso tempo, le inizia­tive ecclesiali riuscivano a mostrare una struttura comunitaria più significativa.

E il rapporto con i media laici?
Facemmo un grande sforzo per aprirci a tutti i media milanesi e nazionali, anche se gli stru­menti non erano certo quelli di oggi. Con il pas­sare del tempo, la rispondenza ottenuta diven­ne molto maggiore rispetto a quanto si pensas­se. Il dialogo era aperto e leale con tutti, pur nel rispetto delle reciproche posizioni. A volte non semplice, ma in ogni caso molto vivo.

La Chiesa italiana come guardava questa pri­ma esperienza diocesana?
Monsignor Francesco Ceriotti, allora direttore dell’Ufficio comunicazioni sociali della Cei, mi invitava spesso ai convegni sul tema. Voleva che portassi la mia testimonianza come esempio concreto di quanto auspicato dalla Communio et progressio, l’istruzione pastorale vaticana del 1971 che fu tra i frutti del Concilio. Un testo al­lora poco seguito.

Nel frattempo, si trattava anche di coordinare i rapporti tra Martini e la stampa...
L’arcivescovo, con le sue capacità pastorali, in­tellettuali ed ecclesiali, si affermava sempre di più sulla scena internazionale. Di conseguenza, gli organi di informazione volevano raggiungerlo in modo sempre più frequente. Il cardinale esi­geva che la sua persona e i suoi interventi fosse­ro legati al cammino pastorale della Chiesa che gli era affidata.

Rispondeva sempre alle domande?
Sì, ma se un quesito non lo convinceva scuote­va la testa aprendo e chiudendo più volte la ma­no destra, quasi a denunciare la pochezza di quanto richiestogli e a richiedere che fosse pro­vocato sui problemi seri della vita, della società, dell’etica, della politica. Di fronte a questi inter­rogativi mai si tirava indietro. E i giornalisti che sapevano andare oltre la curiosità spesso porta­vano a casa un’intervista di peso.

Quale fu la portata pastorale del nuovo ufficio?
Penso che la si possa scorgere bene ora, dopo trent’anni di attività. L’Ufficio per le comunica­zioni sociali è diventato per la diocesi uno sno­do vitale, insostituibile. E ciò perché aiuta la Chie­sa a scendere nei crocicchi delle stra­de e ad annunciare la gioia del Vangelo.

In queste parole ri­suona il messaggio di papa Francesco...
Sostanzialmente sì, al di là del modo di esprimersi dell’una piuttosto che del­l’altra personalità. Martini sapeva bene che è la gente che accoglie il Vangelo, e questa gente abita le peri­ferie. Per questo, in un libretto dedicato ai ve­scovi, il cardinale li esortava a coltivare il contatto con i media. A non aver paura delle spruzzate che inevitabilmente riceve chi si avventura nell’o­ceano della comunicazione, sapendo però diri­gere lo scafo verso il porto. Chi fosse riuscito a farlo avrebbe creato con il popolo un rapporto personale. Quello che ora ci mostra quotidiana­mente Francesco, e che noi già allora tentammo di costruire.

Per lei quest’esperienza si concluse nel 1991.
Con grande sensibilità e gentilezza, il cardinale venne incontro al mio desiderio di tornare alla vita pastorale ordinaria, a tempo pieno in mez­zo alla gente. Così, mi propose la parrocchia di Lecco.

Qual è oggi il suo bilancio di quegli anni?
Un periodo del tutto straordinario e incancella­bile. Ho conosciuto un mondo complesso e sal­dato amicizie durature. Ma soprattutto ho avu­to la fortuna di poter leggere nel cuore e nella vi­ta di un grande uomo e di un grande cristiano. Questa però è una storia del tutto personale...