UFFICIO NAZIONALE PER LE COMUNICAZIONI SOCIALI
DELLA CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA

Dopo Parigi: “Non educhiamo all'odio”

Prosegue, con l’intervento di don Fortunato Di Noto, fondatore di Meter Onlus, la riflessione a più voci promossa dal Copercom sul tema della responsabilità della comunicazione, anche cattolica, dinanzi all’offensiva del terrorismo e allo stato di guerra incombente in Europa. 
11 Dicembre 2015

Prosegue, con l’intervento di don Fortunato Di Noto, fondatore di Meter Onlus, la riflessione a più voci promossa dal Copercom sul tema della responsabilità della comunicazione, anche cattolica, dinanzi all’offensiva del terrorismo e allo stato di guerra incombente in Europa. 
 

Non educhiamo i bambini all'odio   

di Fortunato Di Noto
Fondatore e presidente Meter onlus

Come raccontare la guerra ai bambini? Negli ultimi decenni la letteratura scientifica e la saggistica hanno cercato di rispondere a questa profonda domanda, ponendo in essa anche una nuova prospettiva: come i bambini raccontano la guerra, chi la subisce o chi la vede attraverso lo schermo televisivo e le nuove tecnologie, rifiutandola, ‘bannandola’ o ricordandola con un fiore, una candela, una preghiera.
Quella che stiamo vivendo, è una guerra mondiale ‘frammentata’, ma globale, che si confonde tra finzione e realtà, senza la percezione minima della vera guerra e violenza. Dai risultati di alcuni studi emerge un quadro drammatico: è accertato che i bambini trascorrono davanti alla tv (o navigano in Internet) circa 4/5 ore al giorno, la maggior parte delle quali in solitudine, senza il filtro educativo degli adulti – anche loro attratti dalla violenza e dagli effetti della guerra. I notiziari di guerra e i reportage dal fronte, insieme alla violenza nelle fiction, sono diventati una costante che può o potrebbe incrementare la violenza e l’aggressività nei telespettatori, in particolare nei minori (come rilevano gli studi di Groebel, 1993, e Comstock, 1991). È evidente, e verificabile in maniera empirica, che i minori, dopo aver visto o ascoltato le news di guerra o la spettacolarizzazione della stessa, propendono a comportamenti ‘militarizzati’, facendo acquistare armi giocattolo per fare il ‘soldato’. Una reazione e un comportamento che tendono a giustificare l’aggressione e la guerra giusta. Ma è sempre giusta? Pensiamo alle bombe sganciate con la scritta: ‘Ve le inviamo con amore!’. Ma l’amore include la morte, la distruzione? Gesù Cristo non ci dice di ‘amare il nemico’ e di ‘perdonarlo’? Di non offendere chi ci ha offeso?
La guerra si può raccontare partendo dal perdono e dal dialogo, ‘che non è negoziare’ (Papa Francesco, 10 novembre 2015, al Convegno di Firenze). Certo, è difficile dialogare e perdonare, ma è l’unica via per ‘lavare’ il sangue, e anche se fosse ‘scarlatto’, farlo diventare ‘bianco come la neve’. Questo potrebbe avvenire in vari modi comunicativi, se i media, spesso anche quelli cattolici, riuscissero a non farsi influenzare dall’audience e dalla spettacolarizzazione del male, che viene presentato come un bene. In proposito, vediamo cosa ha prodotto la ‘guerra’ dell’immigrazione, con i morti e l’esposizione del bambino ‘spiaggiato’ anche sui nostri settimanali e media di ispirazione cattolica. Far vedere ciò che il male compie, dovrebbe essere per ogni cosa, per ogni evento. Le immagini e i video sono potenti, ma la parola è più potente, ‘è potentissima quando viene dall’anima e mette in moto tutte le facoltà dell’anima nei suoi lettori; ma, quando il di dentro è vuoto e la parola non esprime che se stessa, riesce insipida, noiosa’ (Francesco De Santis); aggiungerei, violenta e devastante, quando genera guerra su guerra, odio su odio, distanze e muri sempre più alti. Immaginiamo quando la parola deve raccontare fatti già di per sé tragici.
Dopo gli attentati di Parigi (e non è la prima volta, dato che la Madonna del Carmine, dove sono parroco, ha vissuto con dolore la perdita del brigadiere Giuseppe Coletta nella strage di Nassyria, nel 2003), la catechesi e la celebrazione eucaristica con bambini e adolescenti hanno consentito di approfondire le loro paure e angosce. La risposta dei bambini è stata limpida, chiara e drammaticamente spiazzante: ‘Non abbiamo paura della guerra, abbiamo paura delle persone’.
La massiccia comunicazione quotidiana, a tutte le ore – non rispettando la fascia protetta in tv –, sembra innestare il distacco emotivo dagli eventi tragici, suscitando la ‘paura dell’altro e nell’altro’, sia vicino che lontano. Spesso la narrazione della guerra, essendo più ‘telegenica’ della pace, riduce i corpi martoriati in oggetti da ostentare senza pietà.
Grande è la responsabilità dei media cattolici, i quali hanno il dovere di raccontare ai bambini che tra le mani devono avere matite, colori, quaderni, libri; andare a scuola e ai musei. Devono raccontare che sono e siamo chiamati a essere a immagine e somiglianza di Dio, che è amore. Dobbiamo educarli all’amore e non alla guerra e alla conflittualità, anche se a volte è inevitabile. Il terrore genera la paralisi, e le immagini e i racconti di guerra senza percorsi di speranza provocano ‘immagini statiche e inoculate di odio’.
Allora, che fare? Mostrare o nascondere ai bambini le immagini di guerra? Facciamo un’ipotesi: che non le mostri chi propaganda la guerra, ma le mostri e le racconti, per educarli alla pace, chi ha scelto la civiltà del rispetto e della dignità delle persone. Interroghiamoci piuttosto su come raccontarle, non utilizzando la vita dei bambini, diventati un business dell’emozione.

Leggilo nel sito del Copercom