UFFICIO NAZIONALE PER LE COMUNICAZIONI SOCIALI
DELLA CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA

EDITORIALE/Il racconto del quotidiano

Celebrare l’anniversario di un giornale come Avvenire può essere un’occasione preziosa. Da un lato si tratta di riflettere su cosa è e può essere oggi una pubblicazione che esce tutti i giorni, e che si trova a fare i conti con un dovere di informazione precisa, accurata, ma soprattutto significativa. Dall’altro lato si tratta di riflettere su che cosa è la vita di tutti i giorni in cui il giornale si inserisce e a cui fa costante riferimento, sia perché è quella vita l’oggetto della sua informazione, sia perché è in quella vita che sono immersi i suoi lettori.
14 Ottobre 2008

Celebrare l’anniversario di un giornale come Avvenire può essere un’occasione preziosa. Da un lato si tratta di riflettere su cosa è e può essere oggi una pubblicazione che esce tutti i giorni, e che si trova a fare i conti con un dovere di informazione precisa, accurata, ma soprattutto significativa. Dall’altro lato si tratta di riflettere su che cosa è la vita di tutti i giorni in cui il giornale si inserisce e a cui fa costante riferimento, sia perché è quella vita l’oggetto della sua informazione, sia perché è in quella vita che sono immersi i suoi lettori. Dunque l’occasione si presta a incrociare un duplice oggetto, il quotidiano (sostantivo) inteso come periodico, come “daily newspaper”, e il quotidiano (aggettivo) inteso come ciò che caratterizza la vita corrente, come ciò che riflette l’“everyday life”, per vedere se questa comunanza di termini ha ancora senso oppure no. La questione non è bizzarra, ma si pone all’interno di una preoccupazione che non può che esser ben presente a chi si occupa di comunicazione: quella legata ad un progressivo scollamento tra media e vita comune. I media sembrano sempre di più inseguire dei fatti che hanno l’esclusiva caratteristica di essere “notiziabili”, e cioè di catturare l’attenzione del lettore, di sollecitare la sua curiosità. Di qui il privilegio a tutto ciò che è nuovo, che non rientra nei parametri consueti, che eccede il normale corso degli eventi. In questo quadro, la vita comune, fatta in apparenza di piccole cose, anche se non meno significative, rischia sempre più di sfuggire alla attenzione dei media. E d’altra parte essa ha bisogno di una rappresentazione: se non altro perchè è proprio nel suo ambito che si sedimentano i grandi processi di trasformazione di una società, e prendono corpo abitudini e atteggiamenti che costituiscono il nocciolo duro di una comunità. Così come i media stessi hanno bisogno di recuperare questa esistenza comune, pena il rischio di offrire delle rappresentazioni astratte, staccate dall’orizzonte di vita dei loro fruitori. Diciamo meglio: i media hanno bisogno di recuperare il senso dell’esperienza, per non trasformare l’informazione in racconto letterario. E l’esperienza ha bisogno di essere raccontata, per innescare un vissuto veramente comune. Il quotidiano, inteso sia come sostantivo che come aggettivo, può essere il luogo in cui il senso dell’esperienza ritorna, in una fase in cui è paradossalmente in pericolo. Si potrà dire: questa vita corrente, questa dimensione di esperienza, trova in realtà il suo posto nei media. Pensiamo alle inchieste sugli orientamenti di una popolazione nei confronti di questo o quel problema; o pensiamo alle lettere ai giornali, in cui i lettori testimoniano in prima persona ciò che è loro capitato; o pensiamo infine ai reality o ai talk show, in cui persone comuni (o fattesi – fintamente – comuni) raccontano le loro esistenze. In questi tre esempi il riemergere dell’esperienza nel mondo dei media mostra però tutti i sui limiti: la vita corrente è resa astratta, come nella statistica, o è del tutto singolarizzata, come nelle lettere ai giornali, o infine – e peggio – è trasformata in spettacolo narcisistico, in esibizione di sé, in recita, a tutto scapito della verità. E tuttavia il racconto della quotidianità resta una pratica sociale di cui non possiamo fare a meno. Lo si vede nelle piccole cose. Nella telefonata che faccio a mia figlia lontana per metterla al corrente di cosa succede a casa, guadagnando un con-sentire essenziale. Nei gruppi di persone che vivono gli stessi problemi (possono essere semplicemente i genitori di una scuola) e che confrontandosi (in questo caso sui problemi dei loro figli) arrivano a mettere a punto delle pratiche condivise. Nelle mobilitazioni collettive (apparentemente sempre più rare in una “democrazia elettronica”, ma che scattano quando sono in gioco dei veri valori), in cui la testimonianza serve a fare comunità. Sul versante dei media, la lezione che proviene da queste piccole cose comincia farsi strada. Per quanto contraddittoria, la presenza in internet di forum, blog, gruppi di discussione, attraverso cui esporre e spartire la propria esperienza, ci dice del bisogno di recuperare la quotidianità. Sui giornali, il ritorno dell’inchiesta, l’apertura di punti di ascolto, l’offerta di occasioni di confronto e discussione, consente alla vita corrente di farsi più avanti. Certo, spesso le ragioni della notiziabilità prendono il sopravvento – così come la vocazione a trasformare il reale in spettacolo. Ma anche lì, a me pare, l’esigenza di verità si fa sempre più strada – si tratti pure di quella verità, resistente e irriducibile, che si lascia intravedere anche sotto la finzione. È in questo senso che la felice ambiguità del termine “quotidiano”, sospeso tra un aggettivo e un sostantivo, ci può aiutare nella riflessione. È su questa pista che il “bisogno di esperienza” può essere discusso oggi, in un’epoca irrimediabilmente mediale. Festeggiando un anniversario, come si conviene.