Se il Messaggio del Papa per la Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali chiede ai credenti un’accoglienza pronta e sensibile, più difficile è immaginare il riscontro delle sue impegnative parole nella cultura digitale. Ruggero Eugeni, docente di Semiotica dei media all’Università Cattolica di Milano, è uno dei più acuti cartografi di linguaggi e tendenze della Web society . E, 'mappe' alla mano, rilegge il testo magisteriale.
«Verità», «annuncio», «autenticità di vita»: i concetti scelti dal Papa non sono i primi che si assocerebbero alla cultura digitale. Il Web viaggia davvero su un’altra lunghezza d’onda?
La riflessione del Papa va contro una percezione diffusa ma ingenua, e coglie un nocciolo vero dell’esperienza in Rete già vissuto dai 'nativi digitali'. Come per tutte le nuove tecnologie che incidono capillarmente nella vita quotidiana, il Web è accompagnato da grande entusiasmo, un approccio che fa perdere di vista i criteri di fondo. Per questo un richiamo come quello che ispira il messaggio del Papa è oggi molto opportuno. L’immaginario sociale è legato a un’idea delle nuove tecnologie del tutto 'virtuali' e opposte al 'reale', quindi svincolate dai criteri ordinari di verifica. Invece Benedetto XVI richiama la stretta connessione tra l’esperienza del Web e quelle di reali socialità e di costruzione dell’identità.
Chi si richiama a valori forti rischia di essere 'tagliato fuori' da Internet?
Quel che il Papa lancia non è radicalmente nuovo rispetto a quanto circola sul Web: piuttosto mi pare vi sia l’invito a valorizzare e a far sviluppare alcuni spunti già presenti in Rete. Quando si legge della necessità di 'essere testimoni' non si allude a una presenza estranea ai dinamismi di Internet ma costante, diffusa, radicata, ferma e insieme rispettosa, che sappia portare a pienezza gli stili della Rete senza rigettarli.
La cultura digitale è interessata alle identità forti o invita al mimetismo?
Per come si è sviluppato il Web 2.0, vedo una tendenza non già al nascondimento ma a un’autopresentazione rapida che poi si riscontra nelle relazioni coltivate su chat, messengers e dispositivi mobile, ovvero i sistemi più usati dai giovani: tutti strumenti che invitano a esporsi e non a nascondersi.
Da semiologo, a quali condizioni pensa sia possibile «uno stile cristiano di presenza anche nel mondo digitale», come chiede il Papa?
Ripeto: non si tratta di 'inventare' qualcosa di cristiano ma di effettuare un’opera di discernimento di quanto c’è già per cogliere i 'semi del divino' presenti, e capire come valorizzarli. Non ha senso dettare regole, occorre agire per inculturare. Penso a chi cerca costantemente meccanismi di innovazione, a quanti si adoperano per dare a tutti diritto di parola, reagendo con prontezza quando questo viene negata, a quelli che offrono consulenze gratuite per chi ne ha bisogno, a forme sempre più diffuse e non ancora censite di volontariato in Rete... Vanno coltivate dall’interno le tendenze positive che la cultura del Web già presenta, denunciando per converso le derive sbagliate, inclusa quella al relativismo assoluto.
Verso dove ci sta portando la cultura digitale?
Credo che, un po’ paradossalmente, ci stia conducendo a riscoprire il nostro corpo, a un rapporto più equilibrato con le relazioni dirette. In rapporto ai media si parla sempre più di sensazioni, passioni, possibilità di azione. Sono fiducioso: dove c’è apertura, ricerca e disponibilità, il terreno è fertile per seminare una presenza cristiana efficace. Sul Web vale a maggior ragione quel che diceva Paolo VI: più che maestri, occorrono testimoni.