UFFICIO NAZIONALE PER LE COMUNICAZIONI SOCIALI
DELLA CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA

Giornalista e missionario,
per combattere l'indifferenza

Prosegue, con la testimonianza di padre Giulio Albanese, giornalista missionario e Direttore della rivista Popoli e Missione, la riflessione a più voci promossa dal Copercom sul tema della responsabilità della comunicazione, anche cattolica, dinanzi all’offensiva del terrorismo.
12 Gennaio 2016

Prosegue, con la testimonianza di padre Giulio Albanese, Direttore della rivista Popoli e Missione , la riflessione a più voci promossa dal Copercom sul tema della responsabilità della comunicazione, anche cattolica, dinanzi all’offensiva del terrorismo.
 

 

Ho conosciuto i moderni lanzichenecchi

di Giulio Albanese
Direttore responsabile della rivista Popoli e Missione.
Missionario comboniano, ha diretto il New People Media Centre di Nairobi e fondato la Missionary Service News Agency (Misna). Collabora con varie testate giornalistiche per i temi legati all’Africa e al Sud del mondo. È autore di varie pubblicazioni.
 
Nel corso della mia esperienza professionale, come giornalista missionario, ho visitato, in lungo e largo, quelle che Papa Francesco definisce periferie del mondo. In questi bassifondi della Storia contemporanea s’incontra di tutto. A parte i missionari, c’è tanta umanità dolente e poi faccendieri al soldo delle multinazionali, mercanti di pepite, ma anche i mercenari. Questi ultimi costituiscono una sorta di corporazione dell’illecito sulla quale sarebbe auspicabile riflettere. Questi signori, inutile nasconderselo, rappresentano, nel loro insieme, un fattore altamente destabilizzante per i Paesi del Sud del mondo.
Ricordo come fosse ieri la lunga conversazione che ebbi, alla fine degli anni ’90, con un certo Joe. Ci incontrammo in un bar, dalle parti di Westlands (un quartiere della capitale keniana). Magro allampanato, barbetta a pizzo, sguardo simpatico, aveva un passaporto sudafricano, ma in effetti era nato in Inghilterra dove aveva seguito tutti gli studi fino ad intraprendere la carriera militare. Successivamente si era congedato dall’esercito di Sua Maestà per raggiungere la moglie sudafricana a Johannesburg. Avevo impiegato quattro mesi per poterlo intervistare. Allora stavo lavorando per un’inchiesta che poi venne pubblicata sulla rivista keniana New People. Il personaggio era fortemente eccentrico: capelli ossigenati, pantaloni corti color panna, camicia nera sbottonata dalla quale affiorava una collana confezionata con strani amuleti e scarpe da tennis in pessimo stato. Sulle braccia aveva due grandi tatuaggi raffiguranti sull’avambraccio destro un elefante e sul sinistro un enorme coccodrillo, seminascosto dalla manica ripiegata.
Joe mi era stato segnalato da un collega della stampa australiana che lo aveva intervistato in Angola quando combatteva come mercenario nei ranghi della famigerata Executive Outcomes (EO). Joe disse subito che aveva deciso di chiudere la partita una volta per sempre con i cosiddetti “dogs of war” (“cani da guerra”), appellativo attribuito ai moderni soldati di ventura che da anni imperversano nel continente africano. “Armati e viaggerai” era il loro motto. Nelle loro fila c’era di tutto: portoghesi, belgi, russi, inglesi, irlandesi, serbi, croati come anche africani dello Zimbabwe, Mozambico, Namibia. I maggiori centri di reclutamento erano in Inghilterra e Sudafrica. “È gente disposta a tutto per i soldi e, alle spalle di ogni mercenario, c’è sempre una delusione: professionale, familiare, affettiva”, mi raccontò Joe, mostrandomi la foto di sua moglie morta tragicamente nel corso di una rapina a mano armata alla periferia di Johannesburg.
Nel 1986, essendo rimasto vedovo senza figli, decise di mollare il suo impiego di responsabile della sicurezza in un complesso alberghiero di prestigio, per fare il soldato di ventura; un mestiere che gli fruttò un bel gruzzolo, ma troppo rischioso per durare nel tempo. Oggi Joe vive in una capitale africana dove dirige un’impresa di ‘import – export’, ma quando era nell’EO, combatteva in Angola. Nel corso della nostra chiacchierata a Nairobi mi raccontò che gli uomini dell’EO, ai suoi tempi, erano circa 2.500, molti dei quali, veterani di guerre civili che hanno marcato la storia postcoloniale africana: Mozambico, Liberia, Namibia... Un vero e proprio esercito di professionisti, al soldo di chi offre di più.
I mercenari, certamente, guadagnano bene. Stando ad un’inchiesta della rivista New African, nel 1994, diciotto elicotteristi sudafricani operarono in Angola, firmando un contratto di 18mila dollari mensili. “Può sembrare una cifra da capogiro – commentò Joe - ma, dopotutto, il rischio è davvero grande. Durante gli anni trascorsi con l’EO ho guadagnato molto, ma ho anche perso molti amici”. Alcuni dei suoi compagni, mi spiegò con tono affranto, furono fatti prigionieri, altri persero la vita. Joe mi spiegò che il mercato è sempre stato in continua espansione: “C’è l’imbarazzo della scelta quando si tratta di scegliere, ce ne sono di tutte le nazionalità: dall’inglese Gurkha Support Group alla francese Cofras all’israeliana Levdan. Ma nessuna di queste compagnie ha mai raggiunto la notorietà di EO. Il segreto del successo?  La straordinaria capacità operativa dimostrata nel realizzare i contratti; una competenza, frutto, in gran parte, dell’esperienza maturata sul campo dagli ex appartenenti alle Forze Speciali dell’esercito del Sudafrica ‘razzista’, tra cui il nefasto Battaglione 32, probabilmente la più famigerata unità militare che abbia mai combattuto in Africa”.
Anche se è stata ufficialmente sciolta il 31 dicembre del 1998, ancora oggi Executive Outcomes rappresenta il modello su cui si basano tutte le società militari private (Pmc) come quelle che hanno operato e tuttora operano in Iraq e Afghanistan. Secondo Mark Brown, un volontario statunitense di una grossa Ong, che conobbi in Sierra Leone nel 1998, questi moderni lanzichenecchi sono uomini senza scrupoli: “Per loro uccidere è un business e lo fanno perché esiste una costante crescita nel rapporto domanda-offerta. D’altronde il fenomeno non è affatto nuovo se guardiamo alla storia e la stessa etimologia della parola ‘soldato’ lo lascia intuire. Molti dei presidenti africani vedono nei mercenari dei preziosissimi collaboratori”.
In effetti, la presunta etica di EO – “azienda leader nei servizi di sicurezza per proteggere vite e comunità di persone” si leggeva sulla Web page aziendale (oggi non più on line) – non ha mai convinto neanche i più ingenui. In Sudafrica, ad esempio, le Chiese hanno da sempre condannato l’operato dei mercenari, definendoli come “cani da guardia della segregazione razziale” o “mastini da guerra”.  A dire il vero, negli anni ’60 e ’70 i mercenari riuscirono a creare attorno alla loro professione un alone di mito o leggenda. Come il francese Bob Denard, patito per i colpi di Stato nelle isole tropicali dell’Oceano Indiano - con una particolare propensione  per l’arcipelago delle Comore - o come Mad Max Hoare, celebre per aver soffocato la rivolta dei Simba nell’ex Congo belga negli anni Sessanta. Ma accanto a quelli che comunque sono pur sempre poco più che gruppi di sbandati pronti a tutto, nel corso dell’ultimo decennio è emersa un’altra figura di combattente a pagamento: il professionista della guerra, messo sotto contratto o alle dipendenze di “private security company” che, alla stregua di qualsiasi multinazionale, hanno proprie strategie di mercato, pubblicizzano il loro prodotto con “show reel” televisivi e stipulano regolari contratti secondo la legislazione internazionale.
Detto questo, non dimenticherò mai l’esperienza vissuta in Sierra Leone quando, nel marzo del 1999, volai su un loro elicottero Mi8 carico di armi e munizioni. Avevo chiesto  un “passaggio” per raggiungere l’aeroporto di Lungi dalla foresta dove avevo incontrato degli eroici missionari saveriani.  A dire il vero, ero convinto che si trattasse di militari meticci dell’Ecomog, la forza d’interposizione dei Paesi della Comunità Economica dell’Africa Occidentale, sotto comando nigeriano. E invece, chiacchierando a bordo con i due piloti e il mitragliere, scoprii le loro vere nazionalità: due angolani e un eritreo. Il loro capo mi disse in perfetto inglese che appartenevano tutti e tre ad una non meglio precisata compagnia di sicurezza e che si guadagnava bene. Inizialmente pensavano che fossi solo un giornalista, ma quando rivelai la mia vera identità missionaria, con grande sorpresa, divennero affabili e addirittura cortesi. “Padre, credo che oggi io abbia fatto l’unica opera buona di tutta la mia carriera militare; mi riferisco al fatto d’aver preso a bordo un prete”, disse l’angolano spiegandomi che uccidere per lui non era mai stato un problema. Ascoltando le sue parole, capii davvero quanto rischioso possa essere appaltare a società di mercenari le missioni di pace e di interposizione fra opposte fazioni come qualcuno vorrebbe in sede internazionale. Un’eventualità che, se dal punto di vista strettamente pragmatico ha indiscutibili vantaggi in termini di efficacia operativa, dall’altra ha ovvie e incontrovertibili controindicazioni di ordine morale. Parlarne, senza ipocrisie e falsi pudori, è opportuno se si vuole davvero scuotere le coscienze, combattendo la “cultura dell’indifferenza”, denunciata da Papa Francesco nel suo recente messaggio, in occasione della Giornata Mondiale della Pace.

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