UFFICIO NAZIONALE PER LE COMUNICAZIONI SOCIALI
DELLA CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA

Giornalisti, moderni sofisti?

Rémi Brague, il filosofo che Benedetto XVI ha ap­pena insignito del premio Ratzinger per la teologia, parla con Avvenire del ruolo dei media nella diffusione del pensiero. "I giornalisti -a fferma - sono come i sofisti descritti da Plato­ne: ripetono, ripetono e ripetono quello che si di­ce in giro..."
23 Ottobre 2012
«Il rispetto per il passato è la con­dizione per apri­re un possibile futuro». Rémi Brague, il filosofo che Benedetto XVI ha ap­pena insignito del premio Ratzinger per la teologia, parla con pacata mestizia, sforzandosi di essere sem­plice anche se in platea siedono solo filosofi come lui. Ha appena finito di spiegare che la Tradizione non è quella serie ininter­rotta di crimini che si cre­de, che l’errore del rivolu­zionario consiste nel sup­porre di dover fare tabula rasa del passato per co­struire il futuro e quello del reazionario di 'inven­tare la tradizione' per po­terla conservare (il testo integrale della lezione, te­nuta ieri alla Cattolica nell’ambito del ciclo 'Tra­dizione e Innovazione', sarà pubblicato sul prossi­mo numero di Philosophi­cal News ) ma, anche se la sua relazione si intitola 'Non tradire la tradizio­ne', si capisce che consi­dera (quasi) persa la batta­glia. E per colpa dei media.

Professore, a cosa serve il passato?
«Non a rimanerci dentro; il punto non è restare nel passato ma restare fedeli a ciò che ci ha prodotto, perché noi siamo il pro­dotto del passato e dob­biamo essere in contatto con esso se vogliamo di­ventare passato a nostra volta; saremo il passato del nostro futuro, quello che si prepara oggi con noi. Per fare questo, servi­rebbe la capacità di lascia­re che il passato produca i suoi effetti, l’atti­tudine nota a Burke ('Coloro che non guarda­no mai ai loro an­tenati non ve­dranno mai i loro posteri'), ma an­che ai latini, che la sintetizzavano nella pietas ».

E se non fosse un proble­ma di capacità, se i nostri contemporanei non vo­lessero proprio aver nulla a che fare con il passato?
«L’uomo occidentale, o per lo meno l’intellettuale di questa parte del mon­do, conserva un’immagine molto negativa del passato e lo rappresenta come una serie ininterrotta di crimi­ni. C’è qualche elemento di verità in questa descri­zione che porta l’Occiden­te a odiare se stesso: è vero che abbiamo scoperto, conquistato e sottomesso il resto del mondo, che l’abbiamo colonizzato… Il problema principale è però la nostra inclinazione a una confessione dei pec­cati senza assoluzione e senza perdono, che si tra­duce in un esercizio per­verso, in quanto impedi­sce di agire, ci paralizza.
Per uscire da questo com­plesso, la confessione, che ha una sua ragion d’esse­re, dovrebbe essere com­pletata, cioè resa positiva, attraverso l’assoluzione e il perdono dei peccati; ma questo perdono può veni­re solo da Dio».

Quali conseguenza com­porta la scelta ricorrente, nella cultura e nel costu­me, di rompere con il pas­sato, condannarlo e con­dannare se stessi?
«Comporta il rischio di perdere la capacità di rice­vere e trasmettere, che in­fatti oggi è avvelenata dal nostro rapporto con il pas­sato. Il processo è molto a­vanti, investe il linguaggio. Pensiamo a quanto sia ambiguo oramai il termi­ne 'tradizione': ci piace il pane 'tradizionale' e ci ir­rigidiamo non appena si parla di matrimonio 'tra­dizionale'. Sul piano filo­sofico, la tradizione è ac­cettata quando ha un si­gnificato teleologico (pur­ché il telos siamo noi), mentre la valutiamo nega­tivamente quando la con­cepiamo come trasmissio­ne, che è poi il significato della parola latina traditio».

Perché la trasmissione è diventata punto di rottura?
«Forse perché è più diffici­le trasmettere qualcosa, ci vuole una volontà, un pro­getto positivo, ed è più semplice affidarsi alla tra­dizione della pigrizia, di quello che riceviamo già fatto, che non richiede fa­tica né progetto. Il proble­ma di questo nostro tem­po diventa allora quello del coraggio: ci vuole co­raggio per tra­smettere qualcosa, per preparare il fu­turo e non accon­tentarsi di ricevere quanto il passato ci ha trasmesso».

Non crede che il problema sia an­che di trovare un codice per tra­smettere una tradizione che risulta oramai incom­prensibile per chi comu­nica con Twitter e Face­book?
«Purtroppo quello che dice è fin troppo vero. Mi spiace ammetterlo ma è proprio così. Gli intellet­tuali al giorno d’oggi de­vono darsi il compito di trovare un linguaggio, prima di tutto, che sia comprensibile ai giova­ni. Quello che manca è in effetti un ponte attra­verso il quale far passare alle masse ciò che pen­sano gli intellettuali e i media hanno la respon­sabilità tremenda di non far udire le idee alla gen­te, che di quelle idee ha invece un gran bisogno. I giornalisti sono come i sofisti descritti da Plato­ne: ripetono, ripetono e ripetono quello che si di­ce in giro...».

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