UFFICIO NAZIONALE PER LE COMUNICAZIONI SOCIALI
DELLA CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA

Grande fratello smartphone

Tenere in tasca un apparecchio sempre collegato alla Rete ha un prezzo che non è solo quello indicato nei negozi. Il costo meno evidente, ma for­se più oneroso per chi utiliz­za uno smartphone, è la continua cessione, più o meno inconsapevo­le, delle proprie informazioni per­sonali...
1 Luglio 2011
Tenere in tasca un apparecchio sempre collegato alla Rete ha un prezzo che non è solo quello indicato nei negozi. Il costo meno evidente, ma for­se più oneroso per chi utiliz­za uno smartphone, è la continua cessione, più o meno inconsapevo­le, delle proprie informazioni per­sonali ad aziende interessate a sa­pere tutto di tutti per poi vendere meglio i loro prodotti. Aziende che hanno trovato nei telefonini di nuo­va generazione preziosissime mi­niere di informazioni personali di utenti che, magari con poca cautela, regalano a chiunque piccole o gran­di fette della loro vita. Con in tasca un telefonino sempre connesso, ha ricordato pochi giorni fa anche il garante per la Privacy, Francesco Pizzetti, siamo come tan­ti piccoli 'Pollicino' che dissemina­no tracce di sé un po’ ovunque. Cer­to, anche quando si accede a Inter­net con un Pc comunichiamo infor­mazioni più o meno sensibili, ma gli smartphone sono un’altra cosa. Prima di tutto perché usano sistemi di geolocalizzazione Gps che prele­vano dati precisi sulla nostra posi­zione geografica nel momento in cui accediamo a un servizio. Non solo. Mentre su un computer dopo la na­vigazione è possibile cancellare i cookies, ovvero le tracce di siti o pa­gine visitate, su uno smartphone tut­to resta registrato sul telefono e ini­zia a viaggiare nell’etere. Fuori dal nostro controllo.

 
Qualche esempio: Apple ha confer­mato che gli iPhone mantengono un database degli hotspot wifi e delle antenne della telefonia mobile di­sponibili in prossimità del disposi­tivo. In teoria si tratta di informa­zioni, come hanno spiegano i tecni­ci della società, che vengono sfrut­tate per ridurre il tempo necessario a localizzare l’utente da qualche mi­nuto ad una manciata di secondi. Succede la stessa cosa nei dispositi­vi Android, dove alla prima accen­sione, il sistema operativo chiede il permesso di tracciare la posizione dell’utente usando reti wifi e telefo­niche. Se si acconsente, una finestra di dialogo spiega che «il servizio di geolocalizzazione di Google utiliz­zerà, in forma anonima, alcuni dati raccolti dal proprio dispositivo mo­bile». Più subdole sono le insidie per la privacy che arrivano dalle applica­zioni. Le apps sono programmi che vengono scaricati sul telefono e qua­si sempre forniscono servizi via web, il cui utilizzo implica quindi che i dati personali siano spostati o co­piati nel cloud, cioè nei data center del fornitore del servizio. Spesso l’u­tente non è neppure consapevole del fatto che sta utilizzando un servizio cloud, anche se poi dà per scontata la possibilità di accedere agli stessi dati da più dispositivi senza biso­gno di trasferirli manualmente ogni volta. Un’indagine del Wall Street Journal ha rivelato che la metà del­le applicazioni forniscono dati per­sonali a società terze, in alcuni casi senza nemmeno dare agli utenti la possibilità di acconsentire o meno al loro invio. I destinatari dei dati sen­sibili sono quasi sempre aziende che effettuano ricerche di mercato e che, una volta raccolti i dati e divisi i flus­si in aree specifiche, sono in grado di fornire ai pubblicitari delle coor­dinate sociali precise per veicolare i propri messaggi.
Per esempio con la sua app Facebook preleva (e si tiene per sé) le infor­mazioni sul luogo da cui lo stiamo usando. Lo stesso fa anche Google maps, che però quelle informazioni (anonime) le vende anche ad altri. Idem l’app del New York Times. En­trambi inviano a terze parti anche il codice unico di identificazione del telefono. Un numero che in sé non rivela nulla, ma che incrociato con altri dati come acquisti online, con­nessioni sui social network e posi­zioni geografiche può fornire un quadro preciso di un utente. Questo codice - che identifica anche in mo­do univo il dispositivo (marchio e modello) che stiamo utilizzando ­viene prelevato anche da Groupon, il social network dello shopping che lo invia a società che si occupano di predisporre campagne pubblicitarie. Generalmente molto indiscreti an­che i videogiochi: il famoso Angry birds invia a terze parti dati sensibi­li come contatti, città in cui ci tro­viamo e codice del telefono.
Sotto l’instancabile assedio degli spioni, il proprietario dello smartphone non sempre ha la pos­sibilità (e a volte nemmeno la vo­lontà) di difendere i 'fatti suoi'. Ma gli conviene almeno essere consa­pevole di quello che gli altri posso­no sapere di lui.