Un premio per il cinema «umano », puntato sui valori e che non cerca facili scorciatoie. «Erano anni che pensavamo ai fratelli Dardenne come legittimi destinatari del Premio Bresson». L’attesa espressa da monsignor Dario E. Viganò, presidente della Fondazione Ente dello Spettacolo, si è concretizzata ieri alla Mostra di Venezia: sorridenti e inseparabili, i due registi di origine belga lo hanno ritirato dalle mani di monsignor Claudio Maria Celli, presidente del Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali. Come la Chiesa, Jean-Pierre e Luc hanno sempre posto al centro del loro interesse cinematografico l’uomo nella sua completezza e complessità. Eccellenza, è un impegno etico condiviso sui cui riflettere...
«La Chiesa è attenta alla realtà del cinema e all’opera di questi due fratelli perché, con tono delicato, ma incisivo e attento, cercano di capire qual è la vita dell’uomo di oggi, quali sono le angustie e i desideri, le sofferenze e le angosce. Scavano nell’animo per percepirne gli aneliti, le speranze. Non si tratta solamente di due registi attenti a tematiche religiose. Direi che danno un significato più vero, più profondo a questa parola: la loro è un’attenzione precisa e serena a quello che l’uomo vive e sperimenta». L’unicità del momento è percepita dai Dardenne, che rispondono all’unisono.
Vi è stato conferito un premio di ispirazione cattolica: che cosa significa per voi?
«Pensiamo che nella religione cattolica ci sia una dimensione universale molto forte e che l’interesse per la sofferenza umana sia lì, nella religione stessa. Il nostro cinema si è sempre interessato a questa sofferenza. Un premio – sia esso di ispirazione cattolica o protestante o ebraica – deve per noi essere come il nostro cinema: interessarsi all’essere umano, alla sua fragilità, alla sua sofferenza e alla sua speranza».
Chi è per voi Robert Bresson?
«Abbiamo visto tutti i suoi film, con lui si è formato il nostro sguardo, attento soprattutto ai dettagli: un gesto, un corpo... Grazie al dettaglio, l’essere umano prende sullo schermo una forma unica e riconoscibile».
Nei vostri film descrivete la vita in tutta la sua autenticità, senza mai giudicarla.
«Un film non è un tribunale dove si giudica chi è buono e chi è cattivo. Dobbiamo amare tutti i personaggi dei nostri film, l’assassino e la vittima. Quello che conta è esplorare nel modo più profondo possibile sia chi uccide sia chi è ucciso».
Correva voce, nel 2005, del vostro interesse per un film sulla vita di Gesù.
«Abbiamo parlato di questo progetto in mezzo a tante altre cose e tutti hanno detto che i Dardenne avrebbero girato un film sulla vita di Gesù. C’è già quello di Pasolini come punto di riferimento. Però confessiamo che sarebbe bello confrontarci con questa figura ».
Nel frattempo?
«Come nella musica, anche nel cinema bisogna che le cose rimangano segrete. Le si mostra soltanto alla fine».