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Faust di Goethe ricorda la storia di un uomo che vende la sua anima al diavolo in cambio di un attimo di piacere destinato a durare per sempre. Il mefistofelico patto è stato da sempre considerato il tema cardine della tragedia alla quale lo scrittore tedesco lavorò per sessant’anni, dal 1772 al 1831. L'8 settembre al Festival di Venezia il russo Alexander Sokurov ne ha proposto una versione personalissima che fa emergere i veri significati rimasti tra le righe di un’opera fondamentale per la cultura europea. Accolto da una pioggia di applausi, il film si piazza senza alcun dubbio tra i favoriti per il Leone d’Oro. Ultima parte della tetralogia sulla natura del potere, arrivato dopo
Moloch (su Adolf Hitler),
Taurus (su Lenin, che curiosamente portò con sé il
Faust durante il suo esilio in Siberia, e Stalin) e
Il sole (su Hirohito, imperatore del Giappone), il film affianca quello di Faust, come dice il regista stesso, ai ritratti dei «grandi giocatori che hanno perso le più importanti partite della loro vita». 'Faust' in russo, spiega il regista «significa 'pugno'. E come un pugno chiude tutto: è la sintesi dei miei film della riflessione sul potere». In comune con quei personaggi storici, il letterario protagonista della pellicola ha l’amore per le parole a cui così facilmente si presta fede e una patologica infelicità, che emerge nella vita quotidiana. E lo stesso Goethe mette in guardia su quanto pericolose siano le persone infelici.
«Ai nostri giorni l’anima sembra costare davvero poco – dice il regista – ma non ci sono molti acquirenti in giro». Il Faust sokuroviano, personaggio mitico che simboleggia la ribellione ai limiti della natura umana, è accompagnato da un diavolo usuraio deforme e iconoclasta, è assetato di conoscenza e si agita instancabile in spazi troppo angusti per contenere i sogni, i progetti di un uomo che si fa portatore di idee anticipatrici di modernità. Faust accetta il patto con il diavolo perché è sicuro che nulla mai al mondo lo sazierà al punto da fargli desiderare di fermare quell’attimo. La scommessa del demonio, che tenta in continuazione il medico, è insomma persa in partenza. Del resto l’anima, nei tanti corpi aperti e sezionati, lui non l’ha mai trovata. Contando su una sontuosa, monumentale e visionaria messa in scena in sintonia con la grandiosità del personaggio, il film complesso, spesso sgradevole in alcune scene mortifere ambientate tra carni massacrate che rimandano alla pittura di Bosch («Avevo girato scene anche più orribili, ma ho deciso di buttarle, non erano necessarie»), identifica in un continuo, inquieto errare tra ghiacciai, boschi e lande desolate l’essenza stessa della condizione umana. E afferma il tragico paradosso secondo il quale solo la presenza del demonio può condurci al divino.