UFFICIO NAZIONALE PER LE COMUNICAZIONI SOCIALI
DELLA CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA

Il Terzo Mondo scopre i mediatori della rete

In un piccolo ufficio nei sobborghi di Kampala, capitale dell’Uganda, una giovane operatrice, Lydia, risponde con cortesia al telefono giallo che continua a squillare ogni tre minuti circa: « I bordi delle foglie di banana stanno diventando gialli e si seccano. Le giovani foglie si piegano. Che malattia è questa? » , è la domanda dell’interlocutore.
16 Novembre 2009

In un piccolo ufficio nei sobborghi di Kampala, capitale dell’Uganda, una giovane operatrice, Lydia, risponde con cortesia al telefono giallo che continua a squillare ogni tre minuti circa: «I bordi delle foglie di banana stanno diventando gialli e si seccano. Le giovani foglie si piegano. Che malattia è questa?» , è la domanda dell’interlocutore.
  «Non ho una risposta immediata, la richiamo entro dieci minuti» , è la risposta. Accanto a lei Fiona, non più di trent’anni, ascolta l’imbarazzante quesito che le giunge dalla cornetta: «Un maiale si rifiuta di montare una femmina nonostante abbia sei mesi. Cosa devo fare?» . A una spanna di distanza intanto Charlene, sta cercando di informarsi su come si curi la coccidiosi, sulle misure adottate dal governo dell’Uganda per stabilizzare i prezzi in agricoltura, su quale squadra di calcio sia la più forte del mondo e su quando fu scoperto il fuoco. A una scena simile si potrebbe assistere a Pune, la quarta città industriale dell’India, a circa 150 chilometri a sud- est di Mumbai nello Stato indiano del Maharashtra: anche qui alla « centrale operativa » del progetto Question Box arrivano domande sul prezzo delle patate, sull’orario dei treni, su problemi di tipo sanitario come la nuova influenza. Dietro a tutto questo c’è una giovane californiana, Rose Shuman, fondatrice di Open Mind, ente no profit statunitense che due anni fa ha cominciato a installare in India, nelle strade dei villaggi attorno a Pune, un apparecchio semplice quanto efficace: il question box , appunto, ovvero la scatola delle domande con due soli tasti (di recente ridotti a uno) per avere accesso al mondo delle informazioni. Si tratta di una tecnologia scarna ed essenziale, ma pensata a partire dalla consapevolezza che l’enorme sviluppo globale nel campo della comunicazione ha messo a disposizione milioni di informazioni, permettendo alle persone di diventare più autonome nella costruzione della propria conoscenze e quindi del proprio destino. Una conquista che però non è di tutti. Internet è oggi il mezzo più potente di diffusione della conoscenza, ma ha dei limiti tecnici, come l’impossibilità per motivi logistici ed economici di collegare in rete migliaia di villaggi rurali nelle zone sottosviluppate del mondo o anche nei Paesi in via di sviluppo. In queste zone rimane così impossibile l’accesso a una grande massa di dati utilissimi proprio per lo sviluppo delle popolazioni agricole, spesso vittime di «mediatori» della conoscenza non sempre disinteressati e preoccupati della crescita di queste persone.
Da anni la Shuman pensava a questo problema, che i tecnici riassumono con il termine digital divide , lo squilibrio tra una zona e l’altra o una fascia sociale a l’altra nell’accesso alle tecnologie digitali. Due anni fa, grazie all’appoggio finanziario della fondazione Grameen, nata dall’omonima banca che ha inventato il microcredito, e della fondazione Bill & Melinda Gates, è stato possibile installare i primi apparecchi e avviare la prima centrale operativa. Oggi il progetto è attivo in India, a Pune e, presto, a Noida, oltre che, dallo scorso aprile, in Uganda, con progetti pilota nei distretti di Mbale e Bushneyi.
  Ma come funziona? Il meccanismo è molto semplice: vengono installati per strada, laddove internet e le tecnologie digitali non arrivano, delle scatole, i question box , che funzionano come degli interfono.
  Attraverso la linea telefonica gli apparecchi mettono in comunicazione con una centrale operativa. Chiunque, premendo un solo tasto, può comunicare con gli operatori che si trovano davanti a un computer connesso a internet e porre la propria domanda nella propria lingua. Il question box , quindi, ha una doppia funzione mediatrice: tecnologica (perché porta i contenuti della grande Rete laddove non sono accessibili) e linguistica- culturale (perché traduce i risultati della Rete nella lingua dell’utente). In Uganda, a causa delle inaffidabili linee telefoniche via cavo, il box è sostituito da un operatore, distinguibile grazie a una maglietta gialla con la scritta ' Ask me ', «Chiedi a me» ; molti di loro sono pensionati che vogliono continuare a rendersi utili alla comunità. In questo caso la comunicazione con la centrale avviene attraverso il telefono cellulare, ma anche i box si stanno evolvendo. Gli apparecchi, infatti, stanno diventando sempre più autonomi dalle locali e spesso carenti infrastrutture grazie ai pannelli solari per l’energia elettrica e l’uso della rete cellulare, che, in seguito a una crescita vertiginosa, in questi villaggi ha maggiore copertura rispetto alle tradizionali linee telefoniche. Ma non basta: l’Africa Apps, ente che in Uganda collabora con Open Mind al progetto, sta lavorando alla creazione di un archivio contenente le domande più frequenti poste ai question box . In questo modo anche nel momento in cui internet risultasse inaccessibile (cosa non rara in Africa) è possibile dare risposta ai quesiti più popolari. In più gli operatori sono in contatto anche con esperti che possono essere consultati, anche se non in tempo reale come nel caso della ricerca su internet, per avere risposte sui temi più tecnici.
  Se il successo del progetto è già acclarato, con circa cento o duecento domande poste al giorno ad ogni operatore, l’efficacia è testimoniata da storie come quella di un giovane allevatore ugandese di Mbale. «Quando si è saputo dell’influenza suina – racconta – la gente voleva costringermi ad abbattere tutti i miei maialini. Grazie a Paul, operatore del question box , sono venuto a conoscenza della possibilità di chiarire dubbi e avere ulteriori informazioni. Ho posto all’operatore il mio quesito e ho scoperto che in Uganda la malattia non era stata rilevata ancora e che comunque non si trasmette attraverso i maiali: avevo rischiato di buttare via un sacco di soldi per nulla» .

ALLEGATI