UFFICIO NAZIONALE PER LE COMUNICAZIONI SOCIALI
DELLA CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA

In un film, il riscatto dei detenuti

Arriva nelle sale "Cesare deve morire", dei fratelli Taviani, Orso d'Oro a Berlino. I due maestri raccontano ad Avvenire come è nato un progetto che ha portato sul set trenta uomini condannati a decine d'anni di prigione. «Noi speriamo che chi vedrà il film capisca che anche chi si è macchiato di colpe orrende è e resta un uomo».
1 Marzo 2012
« Da quando ho conosciuto l’arte, questa cella è diventata una prigione». Questo commento lo fa un attore diverso da tutti gli altri. S’è inchinato agli applausi, è sceso dal palco, s’è tolto il costume di scena. Ed è rientrato in cella. È uno dei trenta detenuti della sezione Alta Si­curezza del carcere romano di Rebibbia. Assieme a lo­ro ha interpretato il Giulio Cesare di Shakespeare, ed è stato ripreso all’interno del film Cesare deve mori­re. Così il suo commento – autentico, pronunciato do­po una giornata di riprese, e poi divenuto il finale del film – riassume tutto il senso della pellicola che ha vinto l’Orso d’Oro a Berlino. «L’arte apre la mente e l’anima. Rende in qualche modo 'liberi' – spiega Pao­lo Taviani (80 anni) – E questo, per trenta uomini con­dannati a decine d’ anni di galera, se non al 'fine pe­na mai', ha un significato speciale». Il significato di Cesare deve morire: la «liberazione in­teriore » – a metà tra documento e fiction – di trenta, autentici carcerati. Trasformati in attori. «Molti di lo­ro non sanno né leggere né scrivere – considera Fa­bio Cavalli (che nel film, e nella realtà, è stato il regi­sta dello spettacolo, poi ripreso dai Taviani) – E quan­do scoprono i poeti hanno uno shock. Capiscono di essere dei potenziali artisti; rimpiangono quanto hanno perduto. Ma soprattutto pensano: forse non è ancora finita. Forse abbiamo ancora una chance». La singolare storia della costruzione di Cesare de­ve morire (dal 2 marzo nelle sale) rispecchia la sua affascinante anomalia. «Un giorno una cara ami­ca c’invitò a vedere uno spettacolo nel carcere di Rebibbia – racconta Vittorio Taviani (82 anni) – Al­l’inizio eravamo diffidenti. 'Sarà anche buono – pensavamo – ma pur sempre filodrammatico'. I detenuti lessero l’Inferno di Dante, 'traducendo­lo' nel loro parlare dialettale. E confrontandolo col proprio inferno personale. Uno di loro disse: 'Que­ste parole voi potete capirle fino a un certo punto. Noi invece le sentiamo tutte, perché le abbiamo vissute'. Rimanemmo fulminati».
Così emoziona, e commuove insieme, la rigorosa pel­licola in un severo bianco e nero – e solo a tratti in vi­vidi colori – che segue passo passo la creazione del­lo spettacolo: provini, letture a tavolino, prove in pie­di, rappresentazione. E serale, inesorabile rientro in cella. «Lavorare con attori che sono stati anche ladri o assassini, significa evocare esperienze che un co­mune attore non possiede. Alcuni di loro hanno ta­lento; ma è un talento diverso. Portano inconsape­volmente negli occhi, nella voce, qualcosa che rende i loro personaggi più veri».
Quanto al rapporto umano con loro, i sentimenti dei Taviani sono stati contrastanti. «Girare un film signi­fica condividere la stessa ricerca di verità. E quindi fa­re amicizia – osserva Paolo – Poi però abbiamo pen­sato: è giusto compatire questi assassini? Non biso­gnerebbe compatire le loro vittime?». Aggiunge Vit­torio: «Finchè sentimmo che attraverso Shakespea­re riuscivamo a tirar fuori da loro emozioni che, in un certo senso, purificavano le loro colpe. Uno di loro ha scritto alla moglie: 'Vieni a vedere lo spettacolo. Quan­do recito mi sembra di potermi perdonare'».
L’Orso d’Oro, per i due anziani maestri, è stato fon­te «di grande piacere e stupore». Circa quelli che han­no cercato di salire sul carro del vincitore, Nanni Mo­retti («L’unico a voler distribuire il film – precisa la produttrice Grazia Volpi – Nessun’altro ci ha credu­to ») commenta: «Questa è una vittoria dei fratelli Ta­viani. Non del cinema italiano». Ma soprattutto de­gli interpreti. «Noi speriamo che chi vedrà Cesare de­ve morire capisca che essi – è vero – si sono macchiati di colpe orrende. Ma che sono e restano uomini».