UFFICIO NAZIONALE PER LE COMUNICAZIONI SOCIALI
DELLA CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA

Invisibili… a chi?

“La testimonianza è la necessaria reazione di fronte alla tendenza sociale a considerare la religione invisibile". Questa una delle riflessioni scaturite dal convegno svoltosi in questi giorni a Roma su: “Parola e testimonianza nella comunicazione della fede. Una rilettura di un binomio critico alla luce del Concilio Vaticano II”.
14 Marzo 2012
“La testimonianza è vitale per la Chiesa nello svolgimento della sua missione nel mondo”, anzi “è la prima via che deve percorrere quando ricerca gli strumenti più coerenti oggi per l’evangelizzazione”. Lo ribadisce mons. Rino Fisichella, presidente del Pontificio Consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione, che è intervenuto al XV convegno della Facoltà di teologia della Pontificia Università della Santa Croce, svoltosi in questi giorni a Roma sul tema: “Parola e testimonianza nella comunicazione della fede. Una rilettura di un binomio critico alla luce del Concilio Vaticano II”. Secondo il presidente del dicastero pontificio, la testimonianza è la “via maestra” per la nuova evangelizzazione: “In un contesto di estesa indifferenza che porta inevitabilmente verso forme di agnosticismo e mancanza di fede, i testimoni hanno il grave compito di provocare l’assunzione di stili di vita che sanno parlare di vero amore, di genuina libertà e di gioia reale”. “Sarà la globalità dell’esistenza a dover essere testimoniata al mondo d’oggi più che la frammentarietà di esperienze che rischiano di far perdere di vita l’essenziale”, ha affermato mons. Fisichella, soffermandosi sulla “responsabilità” per il cristiano di “saper creare nuovi segni che permettano di verificare e convincere quanto il Vangelo sia realmente un’ancora in grado di radicare il senso dell’esistenza e la sua reale possibilità per essere recepito e vissuto anche ai nostri giorni”.

 
 
No alla “rimozione del conflitto”
Nel “clima culturale” attuale, caratterizzato dal “rifiuto dell’idea di verità”, domina “una declinazione debole e decisamente scadente della categoria della testimonianza”, tollerata solo come “racconto della propria esperienza”. A lanciare la provocazione è stato mons. Giuseppe Angelini, della Facoltà teologica dell’Italia settentrionale. “La testimonianza – ha esordito mons. Angelini – è categoria assolutamente irrinunciabile per dire la qualità della parola cristiana”, ma è insieme anche “la categoria alla quale le forme correnti del pensiero appaiono oggi decisamente refrattarie”, sulla base del principio dell’“estraneità reciproca delle coscienze”. Per mons. Angelini, il “tratto dominante” che caratterizza la figura della testimonianza, quando è ammessa, è la “rimozione del conflitto”, a cui “concorrono cattolici e anche laici” in nome del “dogma della laicità civile” – in base alla quale la fede dovrebbe rimanere “marginale rispetto alle forme della vita civile” – e della “nuova religione laica” dei diritti umani, che devono essere affermati “senza alcuna necessità di dire Dio”. Il “dogma fondamentale” della cultura postmoderna, ha spiegato, è “il rifiuto dell’idea di verità”. Di qui “il rinnovato apprezzamento delle tradizioni religiose”, ad una condizione però: “Che esse siano concepite non come forme della verità che a tutti s’impone, ma come risorse simboliche”. “Gesù – l’obiezione di fondo di mons. Angelini a questa concezione edulcorata di testimonianza – insegna espressamente che il conflitto è inesorabile”.
 
Un triplice legame
“Il Vangelo è costituito in modo tale da non imporsi sull’uomo”. A ricordarlo è stato Paul O’Callaghan, della Pontificia Università della Santa Croce, “Con la risurrezione di Cristo non tutti credevano. Con la vita santa dei cristiani, neppure”, ha fatto notare O’Callaghan: “Il Dio onnipotente, che ha creato il cielo e la terra, cerca una risposta pienamente libera e generosa dell’uomo alla sua rivelazione”. Così come accadde in Cristo, ha affermato ancora, “i credenti, quando danno testimonianza della loro fede, stabiliscono un legame triplice: con chi ascolta, che viene spinto dalla loro convinzione e sincerità; con Dio che rivendica la verità in e per mezzo della loro vita, e con se stessi, perché la testimonianza che danno è e deve essere in profonda sintonia – unità di vita – con il loro vissuto concreto”. Tenendo conto sempre, questo sì, che “non si tratta di un processo automatico, ma libero, dovuto alla riserva escatologica che sempre caratterizza la rivelazione cristiana, e alla necessità di una risposta generosa, personale e intrasferibile che ogni uomo viene invitato a dare alla grazia divina”.
 
Antidoto all’invisibilità.
“La testimonianza è la necessaria reazione di fronte alla tendenza sociale a considerare la religione invisibile, tendenza che – bisogna riconoscerlo – è stata fatta propria anche da una parte dei cristiani”. Lo ha detto Cesar Izquierdo, della Facoltà di teologia dell’Università di Navarra, secondo il quale “il processo di privatizzazione della fede è il risultato di due principi della cultura postmoderna: il primo è che la verità non può essere affermata pubblicamente; il secondo è che la fede può essere qualificata non come vera o falsa, ma soltanto come sincera o ingannevole”. Di conseguenza, “sembra inadeguato e addirittura sconveniente pretendere che il sentimento religioso esca dalla sfera personale e miri ad avere un riflesso nella società”. Di fronte a queste pretese, ha concluso Izquierdo, “la predicazione cristiana non può rinunciare a che la fede sia testimoniata pubblicamente, e a che questa testimonianza sia in relazione con la verità, come hanno ricordato gli ultimi due Papi”.
 
(a cura di M.Michela Nicolais