Cominciamo da una verità basilare sulle parole. Le parole sono suoni. In senso stretto, non sono affatto 'segni'. 'Segno' suggerisce 'alla radice' qualcosa che si apprende attraverso la vista, dato che deriva dal latino signum che indicava lo stendardo portato dalle unità militari romane affinché fossero identificate a colpo d’occhio. La parola non è questo. Le parole vere non possono essere viste.
Possono solo essere udite. Se sono in qualche modo un 'segno', sono al tempo stesso qualcosa di fondamentalmente diverso. Se da un lato è vero che le parole sono necessarie per dire il significato dei segni, dall’altro non è così vero che i segni siano necessari per dire il significato delle parole. Possiamo disegnare un suono? Possiamo fare un disegno per esprimere il senso di ogni singola parola in questo paragrafo?
Ogni lingua umana si basa sul suono. Il pensiero umano è legato al mondo sonoro più che a ogni altro campo sensoriale. Persino le persone congenitamente sorde imparano a pensare e a parlare entrando indirettamente nel mondo delle parole che risuonano intorno a loro, un mondo creato da persone che parlano e che sentono. Raccogliamo le parole dalla pagina scritta o stampata attraverso la vista, ma lo facciamo riconvertendole in suoni, oralmente o con la nostra immaginazione. Le parole scritte e stampate sono parole solo in quanto noi sosteniamo che lo siano. In realtà, non sono altro che tracce che forniamo affinché ci suggeriscano suoni. Non sono affatto parole vere.
Questo non significa che la scrittura e la stampa non siano di grande importanza. Danno alle parole un potenziale nuovo e meraviglioso. Senza di esse la civiltà non può avanzare. Questo è vero più che mai nella nostra era elettronica, in cui scrittura e stampa non solo ci circondano, ma cambiano ruolo entrando in relazioni complesse con altre modalità di comunicazione. Senza la scrittura e la stampa, ciò che si trova su questa pagina potrebbe raggiungere pochissime persone. Tuttavia, la scrittura e la stampa rimangono fenomeni verbali secondari. Resta da studiare in maniera ben più approfondita perché il nostro pensiero si leghi in modo tanto immediato e intimo al mondo del suono. I poemi omerici, che vengono da una cultura priva di scrittura, cantano di 'parole alate'. Le parole volano via. Questo non significa semplicemente che se ne vanno. Vuol dire anche che sono forti. Il volo richiede un’energia straordinaria. E le 'parole alate', quelle pronunciate, quelle reali, segnalano un’azione piena di forza. Diversamente dagli altri campi sensoriali, il suono segnala sempre l’uso presente della forza. Le persone provenienti da culture orali, come ancora esistono nelle regioni non tecnologiche del pianeta, sanno bene che le parole hanno forza perché, quando pensano alle parole, di solito pensano a quelle reali, pronunciate. Lunghezze d’onda, diagrammi e impronte vocali sono, per la realtà del suono, solo analoghi visivi, anche se straordinariamente validi. Grazie a essi riusciamo a capire attraverso la vista che cosa è il suono. Ma solo questo: il suono non è quello che si può rappresentare. Il suono non può essere ridotto interamente a nessun altro campo sensoriale. Non c’è niente come il suono e non c’è niente neanche come le parole. Non esiste un modo per raffigurare pienamente la comunicazione verbale. Siamo così abituati ad associare le parole con la scrittura e con la stampa che il senso di molte affermazioni profonde può sfuggirci o arrivarci in modo debole. Quando il Vangelo secondo Giovanni inizia con «Nel principio era la Parola, la Parola era con Dio, e la Parola era Dio», l’evangelista, anche se stava scrivendo, certamente non aveva in mente la parola scritta, e men che meno quella stampata. Pensava alla parola umana come a un analogo del divino, ma anche alla parola umana così come arriva a noi in quanto suono vivo, vibrante, pieno di forza. Ma se la parola 'parlata' dell’uomo evoca la Parola di Dio, al tempo stesso differisce profondamente da essa perché è evanescente. La parola dell’uomo è potente, ma è anche peritura, mentre «la Parola del Signore rimane in eterno». Tuttavia, la parola di Dio nella sua permanenza non è come la nostra scrittura, quanto piuttosto come il nostro silenzio da cui le parole emergono e che rimane. Poiché la comunità dipende fortemente dal linguaggio, alcune delle divisioni più profonde nell’umanità oggi esistono per il fatto che diversi gruppi parlano lingue diverse. In molti paesi in via di sviluppo questo problema è enorme. I nigeriani, ad esempio, parlano molte lingue – non solo diversi dialetti, ma lingue differenti quanto l’inglese e il russo. Nessuno in questo grande paese – 56 milioni di abitanti – può parlare con tutti i suoi compatrioti a meno che non usi una lingua straniera per sé, per gli altri o per entrambi. La Cina e innumerevoli altri paesi hanno problemi analoghi. Non importa quanto poco sia parlata: ogni lingua è un tesoro in se stessa, ma la nostra moltitudine di lingue crea grandi problemi. Generalmente, le lingue più ricche e più sensibili sono quelle che si sono 'imbastardite' e 'corrotte' con molti prestiti. Si è detto che poiché tutti si esprimono con le parole, tutti pensano di poterne parlare. La verità è che è molto difficile parlare delle parole e costruire significato. Spero che queste brevi considerazioni servano se non altro a dare un’idea del mistero delle parole, della loro ricchezza e della loro complessa relazione con la vita umana.
di Walter Ong
( Traduzione di Sarah De Sanctis)
Walter Ong (1912-2003), gesuita americano, antropologo e allievo del sociologo Marshall McLuhan, ha insegnato alla Saint Louis University, dedicando molti dei suoi studi alla storia delle culture e dei processi comunicativi. Le sue opere sono state tradotte in numerose lingue, anche in italiano: si ricordano, tra le altre, «Oralità e scrittura» (il Mulino, 1986), «Conversazione sul linguaggio» (Armando, 1993) e «Il sacro oltre lo scandalo. Hopkins, il sé e Dio» (Medusa, 2010). Il saggio di cui qui vengono anticipati alcuni stralci esce sul prossimo numero della rivista “Lettera Internazionale”, e venne pubblicato da Ong nel 1972 sul “Saint Louis University Magazine”.