In uno degli ultimi numeri dell’Internazionale (
http://www.internazionale.it/sommario/) si può leggere un lungo articolo, veramente interessante, dal titolo “Il mio amico Facebook”. Oltre a fornire una serie di dati che è sempre bene avere presente (in soli sei anni di esistenza FB sta per raggiungere i 500 milioni di iscritti, quindi se fosse uno stato sarebbe il terzo più popoloso del mondo; dal 2006 si possono iscrivere anche i ragazzi che hanno compiuto 13 anni, ma è noto che gli 11enni si iscrivono barando sull’età; nei primi tre mesi del 2010 FB ha mostrato ai suoi utenti 176 miliardi di annunci pubblicitari), l’articolo, che è tratto dal Time, è sconcertante per le dichiarazioni di Mark Zuckerberg, e di alcuni suoi collaboratori, che vengono riportate. Mi colpisce sempre l’ipersemplificazione del modo americano di ragionare, e la totale assenza di problematizzazione rispetto a una serie di questioni di fondamentale rilevanza antropologica e sociale. In questo articolo si trovano almeno due affermazioni, disarmanti nel loro candore, ma anche indicative del vuoto culturale del mondo occidentale contemporaneo. La prima è “stiamo costruendo una rete in cui il default è sociale”. Se uno dei guru della rete si pronuncia in questo modo, identificando in maniera aproblematica connessione e relazione, accesso ai profili e socialità e anzi, ancora più gravemente, definendo la socialità come un “effetto” automatico della connessione, credo ci siano gravi motivi di preoccupazione.
La seconda affermazione è di un manager del gruppo Facebook, ed è relativa alla possibilità di sfruttamento commerciale delle reti di contatti, viste come contesti da sfruttare per inserzioni pubblicitarie mirate. Cito: “Se tre dei nostri amici cliccano ‘mi piace’ sul sito di una certa marca di pizza, presto potremmo trovarci un annuncio con i loro nomi che ci consigliano di provarla. E’ un tipo di pubblicità basato sull’influenza del gruppo. Sandberg e gli altri manager di Facebook sanno bene quanto conta il contesto per vendere un prodotto, e pochi contesti funzionano come quello dell’amiciza” (Internazionale 849, 4 giugno 2010, p. 39).
Non è un problema, quindi, che l’amicizia diventi un medium su cui far passare il messaggio pubblicitario, nell’ottica della strumentalizzazione, a fini economici, di ogni dimensione dell’umano: è la specialità del nostro tempo.
E’ giusto che i genitori si preoccupino degli eventuali contatti con sconosciuti pericolosi attraverso i social network, specie quando i figli sono minori; ma è estremanente pericolosa e distruttiva anche la pedagogia implicita che, con grande leggerezza e una punta di soddisfazione, passa attraverso la gestione della rete come ambiente di relazioni (strumentalizzabili): è il “nichilismo sorridente” che distrugge, sotto i nostri occhi miopi e con il nostro superficiale consenso, le condizioni di una vita umana.