UFFICIO NAZIONALE PER LE COMUNICAZIONI SOCIALI
DELLA CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA

L'arte dell'omelia: né showmen, né mummie

Il Pontefice, incontrando i sacerdoti romani il 19 febbraio, ha sottolineato i rischi di trasformare l’altare da luogo della presenza di Cristo in palcoscenico: chi enfatizza, chi è eccessivamente rubricista, didascalico e rigido non fa entrare nel mistero. Si deve stare «nella comunità, lasciarsi interpellare dalle situazioni e dalle persone».
20 Febbraio 2015

«Il fascino della bellezza. Lo stupore dell’incontro con Dio. Quello stupore che hanno sentito gli apostoli quando sono stati inviati, quello stupore che attira e ti lascia in contemplazione ed è contrario ad ogni tipo di artificialità, sia per chi celebra sia da parte della gente è la cosa centrale e da recuperare dell’ars celebrandi». Così papa Francesco il 19 febbraio all’inizio del suo incontro con i preti di Roma nell’aula Paolo VI. Un incontro del Papa con il clero romano tutto incentrato sul tema della celebrazione eucaristica e dell’omelia che, come ha spiegato il cardinale vicario di Roma, Agostino Vallini, nella sua introduzione è stato suscitato proprio dal lavoro compiuto dai sacerdoti sull’Evangelii gaudium, in particolare sul punto 135, dedicato all’omelia. Il cardinale Vallini ha motivato la necessità di quest’incontro citando il teologo francese Louis Bouyer che faceva rilevare il «pericolo della nausea della parola nella liturgia», il rischio cioè di una predicazione fatta di «parole ripetitive, logore, astruse o moralistiche». Il Papa ha dato così inizio alle sue riflessioni in un clima di serenità e di familiarità riportando due aneddoti che fanno riferimento a questo problema. Quando era arcivescovo di Buenos Aires, infatti, ha raccontato papa Francesco, alcuni fedeli erano andati da lui dicendo che proprio per evitare la noia di certe omelie erano contenti di aver trovato una chiesa dove nella Messa non si facevano prediche e una sua nipote gli aveva riferito di aver ascoltato durante la Messa una lezione di quaranta minuti sulla Summa teologica di San Tommaso d’Aquino. Partendo da questi aneddoti ha invece spiegato che l’omelia non può ridursi ad una lezione di esegesi perché «la fede viene dall’ascolto e l’ascolto riguarda la parola di Cristo» e l’omelia porta in se la grazia, «ha una carattere quasi sacramentale». Il sacerdote trasmette la Parola di Dio che ha una sua forza propria, che attrae. Celebrare e predicare la Parola di Dio è dunque «entrare personalmente e far entrare nel mistero con spirito di preghiera». Per questo dice Francesco chi nella celebrazione abusa dei gesti, chi enfatizza, chi è eccessivamente rubricista, didascalico e rigido non fa entrare nel mistero. «Se si è showmen, protagonisti della celebrazione, non si permette al Signore di provocare, si impedisce di lasciarsi attrarre dal mistero. Il prete non è un maestro di spettacolo né una mummia rubricista». A questo proposito ha citato anche due testi sulla predicazione di due suoi confratelli gesuiti: L’annuncio della salvezza di Domenico Grasso (D’Auria 1966) e quello sulla teologia della predicazione di Hugo Ranher (Eine Theologie der Verkündigung, in italiano Teologia e Kerygma, Morcelliana 1958): «Questi due libri mi hanno fatto molto bene» ha assicurato ai preti di Roma. Il Papa ha quindi ribadito la necessità di entrare nel mistero con spirito di preghiera, di pregare davanti a Dio con la comunità dei fedeli. E riprendendo un suo testo sull’ars celebrandi del 2005 Francesco ha affermato: «Anzitutto, il sacerdote celebrante deve essere consapevole del mandato ricevuto nell’ordinazione sacerdotale: agnosce quod agis, imitare quod tractas. Che colga per primo il senso del mistero, per poi comunicarlo alla comunità cristiana, così che essa percepisca ed entri nella grandezza del mistero. Questo – dice Francesco – richiede una fede viva, nutrita, e uno spirito di preghiera». Nella celebrazione, dice ancora rivolgendosi ai sacerdoti, «operiamo in persona Christi e questo è importante pensarlo sempre per noi, è il Signore che celebra con me». Il Papa ha parlato quindi di due altri aspetti importanti: quello del rapporto del sacerdote con l’assemblea dei fedeli e quello della preparazione all’omelia. «L’altare – ha detto – non è un palcoscenico per noi, è Cristo che è presente nell’altare, è presente vivo nella Parola, nell’omelia e nella comunità. Bisogna stare in mezzo alla comunità e lasciarsi interpellare dalle situazioni e dalle persone. Il rapporto con il popolo deve essere sempre alla presenza di Cristo, la celebrazione perciò non è una rappresentazione ma un far rivivere ciò che Cristo ha compiuto. Il sacerdote deve parlare al cuore, deve far sentire il cuore di Dio. E bisogna chiedere la grazia di dire quello che lo Spirito Santo vuole si dica in quell’omelia, in quel momento a quelle persone che sono lì». Rispondendo poi alle domande di dieci parroci romani si è anche soffermato sulla necessità del contatto il popolo, e sollecitato da uno di loro sulla carenza dei preti e su quelli che, abbandonato il sacerdozio vorrebbero poi ritornare, ha fatto anche un accenno a tale problematica esprimendo il suo dolore per queste persone. Facendo infine molti esempi ha concluso che «la preparazione dell’omelia non è quindi solo una questione di tecnica, ma è un cammino profondo spirituale per ciascuno, che consiste sempre più nel fare spazio nella propria vita alla Parola di Dio. È un cammino, un andare dalla mia parola alla Parola – ha detto Francesco – come i profeti che hanno dato alla propria parola la voce di Dio».