Il cardinale Gianfranco Ravasi, biblista, presidente del Pontificio Consiglio della Cultura venerdì 22 novembre ha ricevuto la laurea honoris causa in Scienze della Comunicazione dalla Lumsa (Libera Università Maria Ss. Assunta) di Roma, in occasione dell’inaugurazione dell’anno accademico 2013-2014.
Prima della cerimonia in Aula Magna, il cardinale ha risposto ai giornalisti nel corso di un incontro nell’aula Traglia della Lumsa, sempre nella sede di Borgo Sant’Angelo 13. Nell’occasione è stato distribuito il volume «Comunicazione e verità. Omaggio a Gianfranco Ravasi» (edizioni Studium, in libreria nel 2014), nel quale è compresa la Lectio Magistralis – di cui Avvenire ha anticipato alcuni brani – che il Cardinale tiene su «Vizi che diventano virtù nella comunicazione». Ecco le anticipazioni pubblicate dal quotidiano dei cattolici...
La nostra società è scandita da un ritmo frenetico. Non importa che, in realtà, spesso il suo movimento si ripeta, ritornando sempre sulle stesse questioni o esperienze, in una sorta di “exode sur place”, un esodo che in realtà si svolge sempre sullo stesso terreno, come diceva lo studioso francese Rémi Lack: ci sembra di essere sempre in movimento, aggrappati a continui flussi spaziali e a rulli ininterrotti di notizie che corrono sugli schermi, mentre in ultima analisi si è come l’Ulisse di Joyce che circola costantemente nello stesso labirinto urbano, incontrando una folla di persone e di eventi, ma in verità rimanendo chiuso in se stesso e nel medesimo spazio, avvolto nel ritmo incessante della ripetizione. Questa ricerca spasmodica dell’ultima novità, anche se essa è in realtà scontata e meno appariscente di quanto appaia all’esterno, oppure la proposta di news apparentemente più fresche, alla fine si trasforma in un vizio, quello dell’impossibilità sia del giudizio sui fatti, sia della riflessione seria e severa per trarne lezioni di comportamento. In questa luce aveva ragione Montale quando, evocando il celebre asserto latino dell’historia
magistra vitae, affermava in
Satura che «la storia è magistra di nulla per quanto ci riguarda». Questo vizio, però, che impedisce di individuare la visione d’insieme della realtà e la permanenza di alcune costanti e valori, può essere una virtù che si sposa col mistero centrale del cristianesimo, l’Incarnazione. La fede cristiana non è una sequenza di tesi astratte, ma la proclamazione di un evento che comprende anche un aspetto fattuale, verificabile storiograficamente. Aveva ragione il già citato filosofo austriaco Ludwig Wittgenstein quando nei suoi “quaderni” annotava: «Il cristianesimo non è una dottrina, né una teoria dell’anima umana. È la descrizione di un evento reale nella vita dell’uomo». L’attenzione all’attualità è, perciò, decisiva perché è nell’immediato quotidiano che si deve incarnare la verità evangelica.
Il regno dell’approssimazione
La cosiddetta “attualizzazione” della Parola di Dio – che ha avuto una costante e straordinaria attestazione nella storia dell’arte di ogni secolo – è una componente necessaria dell’annunzio cristiano. Le scelte anche simboliche di Papa Francesco confermano la fecondità evangelizzatrice della connessione con la storia, nello spirito dell’Incarnazione. È vero: si è spesso detto che divulgare è sempre approssimare, e questa necessità diventa non di rado una legge dominante nell’informazione.
Ciò vale non solo per la religione, ma anche per la scienza o l’economia o la medicina quando approdano nelle rubriche redazionali. Lo spirito mordace del già citato Karl Kraus scherzava (ma forse non troppo…) quando affermava che il rapporto che i giornalisti hanno con la verità è lo stesso di quello che le cartomanti hanno con la metafisica. Il vizio dell’approssimazione spesso impera nella comunicazione religiosa e ha genesi diverse. Può nascere da una vera e propria impreparazione, oppure da una disinformazione ricevuta e trasmessa, o ancora da una certa mitologia nei confronti della Chiesa e delle sue scelte o vicende. La scrupolosa verifica dei dati, la cura del dettaglio, il vaglio delle fonti, anche a causa della fretta precedentemente ricordata, diventano esercizi poco praticati in tutti i campi. Questo limite pesante può generare, però, per contrasto una virtù nell’istituzione ecclesiale, spingendola a favorire la trasparenza, a non rifugiarsi nella pura e semplice critica, a offrire una documentazione fruibile, ad essere più simpatetici col mondo dell’informazione, adottando un dialogo reale sostanziato di contenuti chiari, a non trincerarsi dietro il formalismo del comunicato ufficiale che talora è come l’oracolo di Delfi, dice e non dice, ma solo ammicca, favorendo così l’imprecisione dell’interprete. Già Aristotele riconosceva nella sua Retorica che «la semplicità sincera rende gli oratori incolti più efficaci dei colti nel rivolgersi a un pubblico popolare ». Tenendo conto del fatto che nel mondo della comunicazione, soprattutto in quella “internettiana” così sterminata, s’affollano legioni di incolti, è meglio aprire loro con chiarezza ed essenzialità il bagaglio dei dati reali perché i fruitori possano più efficacemente recepirli ed eventualmente trasferirli in rete, senza essere tentati di elaborare sintesi o ricostruzioni o interpretazioni in proprio. Un delizioso detto rabbinico afferma che «val più un grano di pepe rispetto a un cesto di cocomeri ». È indubbio che l’eccezione provoca più interesse della norma secondo la celebre battuta per la quale a far notizia non è un cane che morde un uomo ma il contrario. Nel curioso e sarcastico
Left Handed Dictionary americano si legge questa ironica definizione del giornalista: «Colui che sa distinguere tra grano e pula e pubblica solo la pula». Si crea, in tal modo, la corsa allo scandalismo, ai retroscena, al negativo. Nel caso della Chiesa è facile da parte dei media indulgere alla ricerca dell’abuso, della mancanza, della contraddizione, spesso “massimizzandone” gli echi e persino la stessa realtà. Ad esempio, non di rado la Curia romana è stata rappresentata esclusivamente come un covo ove si perpetrano maneggi oscuri e si consumano scontri di potere alla Dan Brown.
La forza del “piccante”
Questa ricerca spasmodica del “piccante”, specialmente in ambito sessuale, è evidentemente un vizio che ha registrato punte acute nella recente comunicazione, particolarmente in quella giornalistica, ma dilaga anche sulla rete, favorita dalla semplificazione e dalla riduttività del modulo informativo tipico dei “lanci” di notizia. Questo atteggiamento negativo ha, però, il suo risvolto positivo che dovrebbe essere assunto anche dalle istituzioni ecclesiali, senza che esse si lascino tentare da un’esclusiva deprecazione del vizio appena denunciato. Da un lato, questo fenomeno può diventare una lezione per una limpida e corretta informazione da offrire ai media da parte della Chiesa, senza ricorrere subito al negazionismo assoluto o all’autodifesa apologetica che risultano autolesionisti e controproducenti. La capacità di presentare l’eccezione o il caso grave nella sua autentica realtà ridimensiona la generalizzazione a cui indulge l’analisi giornalistica, blocca almeno parzialmente le ricostruzioni fittizie e le deduzioni allargate. D’altro lato, la regola del “piccante” invita il mondo ecclesiale a non cedere alla verbosità, alla genericità, alla vaghezza, considerata all’esterno come una cortina fumogena. Moltiplicando le argomentazioni e le scusanti, ci si mostra, alla fine, reticenti oppure incapaci di comunicare la realtà dei fatti, lasciando aperti varchi al sospetto della vaghezza e dell’ambiguità.
La parola nel silenzio
La parola autentica e incisiva, in verità, nasce dal silenzio, ossia dalla riflessione e dall’interiorità, e per il fedele dalla preghiera e dalla meditazione. In mezzo al brusio incessante della comunicazione informatica, alla chiacchiera e all’immaginario televisivo e giornalistico, al rumore assordante della pubblicità, il cristiano (ma non solo) deve sempre saper ritagliare uno spazio di silenzio “bianco” che sia – come accade a questo colore che è la sintesi dello spettro cromatico – la somma di parole profonde, e che non è mero silenzio “nero”, cioè assenza di suono. Il Dio dell’Horeb si svela a Elia non nelle folgori, nel vento tempestoso e nel terremoto bensì in una qol demamah daqqah, in «una voce di silenzio sottile» (1 Re 19, 12). Anche la sapienza greca pitagorica ammoniva che «il sapiente non rompe il silenzio se non per dire qualcosa di più importante del silenzio». È solo per questa via che sboccia la parola sapiente e sensata. Solo così si compie la scelta di campo sottesa a un famoso detto rabbinico: «Lo stupido dice quello che sa; il sapiente sa quello che dice».