UFFICIO NAZIONALE PER LE COMUNICAZIONI SOCIALI
DELLA CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA

L'ultimo assalto
ai pirati

Inefficace la legge francese contro la pirateria, sono gli Stati Uniti a tentare una nuova offensiva contro chi diffonde musica e film illegalmente, anche se a prevalere potrebbe essere il modello cinese... In Italia, intanto, il 37% dei navigatori nel 2010 ha scaricato il­legalmente musica o film.
2 Dicembre 2011
Nel luglio di 10 anni fa le major di­scografiche brindavano alla chiusura forzata di Napster, il software peer 2 peer che metteva in collega­mento centinaia di mi­gliaia di persone che si scambiavano file (qua­si sempre musicali) i­gnorando sistematica­mente le regole del copyright. Non poteva­no sapere, quelle presti­giose etichette, di avere vinto solo la prima bat­taglia di una guerra ai pi­rati che, da quel momen­to in poi, avrebbe riserva­to loro (e alle case cine­matografiche) poche gioie. Negli anni successivi la re­te è diventata sempre più veloce, aiutando la pirateria informatica a crescere qua­si senza ostacoli, su piat­taforme p2p come eMule, sistemi di download come i Torrent, o il semplice strea­ming (anche via YouTube) di contenuti protetti.

Dicono le stime che il 22% del traffico Internet globale è usato per scambiarsi illegalmente contenuti protetti dal copyright. So­lo in Italia, calcola la Federazione antipirateria audiovisiva, il 37% dei navigatori nel 2010 ha scaricato il­legalmente musica o film.
Ora la grande guerra ai pirati infor­matici è arrivata allo scontro finale: i governi sono divisi tra chi proget­ta l’arma definitiva e chi pensa di is­sare invece la bandiera bianca della resa. Sul fronte dei duri ci sono Sta­ti Uniti e Francia. L’arma parigina contro la pirateria si chiama Hado­pi, sigla che sta per «Haute Autorité pour la diffusion des oeuvres et la protection des droits sur internet». Questa autorità, creata nel 2009 per volontà del presidente Nicolas Sarkozy, punta a debellare i pirati con l’aiuto dei provider che forni­scono le connessioni a Internet. Il provider è obbligato per legge a mo­nitorare il traffico dell’utente, se no­ta connessioni a servizi illeciti (ad e­sempio ai server p2p) deve comu­nicarlo all’Hadopi, che a quel pun­to si mobilita: la prima volta invia una email di avvertimento al pira­ta, la seconda gli spedisce una lette­ra, la terza gli fa sospendere la con­nessione per un periodo che può andare dai 2 mesi a 1 anno.
Il bilancio del primo anno di atti­vità dell’Hadopi è magro: 650 mila email ai pirati, 44 mila lettere, 60 persone passibili di blocco, nessun sospeso. I provider fanno ostruzio­ne e i pirati si sono spostati su ser­vizi di streaming che la legge non a­veva incluso nei contenuti illeciti. Difatti ora Sarkozy vorrebbe ag­giornare la norma, ma l’opposizio­ne è forte e difficilmente nell’anno delle presidenziali ci sarà tempo per una Hadopi 3 (oggi siamo alla 2).
L’arma finale degli americani si chia­ma invece Sopa, sigla che sta per Stop Online Piracy Act. È una legge presentata lo scorso ottobre dal re­pubblicano texano Lamar Smith con l’appoggio di 12 altri deputati di entrambi gli schieramenti. La So­pa dà la possibilità a chi è titolare di un diritto di copyright e lo vede vio­lato online di esigere che il sito col­pevole sia cancellato da Google e dagli altri motori di ricerca, blocca­to dai provider Internet, abbando­nato da ogni servizio di pagamento elettronico. Motori di ricerca, pro­vider e servizi di pagamento avreb­bero 5 giorni per provvedere, altri­menti partirebbe un’azione legale nei loro confronti. La strategia di Smith – apprezzata da Apple e Mi­crosoft, criticata da Google e Face­book – mal si sposa con gli ideali di libertà alla base degli Stati Uniti. Di­fatti ha sollevato un’ondata di per­plessità bipartisan, e le probabilità che il testo sia approvato il 15 di­cembre, secondo calendario, si fan­no ogni giorno più scarse. Provvedimenti così duri sono il ri­sultato della frustrazione dei gover­ni per anni di lotta vana alla pirate­ria. Le istituzioni che non cercano la linea dura studiano invece una resa onorevole. Due settimane fa, al Fo­rum di Avignone sulla cultura digi­tale, Neelie Kroes, il commissario europeo all’Agenda digitale, ha mes­so in dubbio che la protezione del copyright sia il modo migliore per aiutare gli artisti a guadagnare dal lo­ro lavoro. «Abbiamo bisogno di continuare a lottare contro la pi­rateria, ma l’appli­cabilità delle leggi sta diventando sempre più difficile; i milioni di dollari investiti nel tentati­vo di rinforzare il copyright non han­no frenato la pirate­ria – ha detto Kroes –. Anzi, i cittadini sentono sempre più spesso la parola copyright e odiano quello che c’è dietro. Tristemente, molti ve­dono l’attuale siste­ma come uno stru­mento per punire e trattenere, non per premiare». La conclu­sione a cui è arrivata Kroes è che si debba trovare un nuovo mo­do di dare agli artisti il riconoscimento eco­nomico del loro lavo­ro. Ma non si sa come. Il commissario per le Comunicazioni italia­no, Corrado Calabrò, sta preparando una leg­ge anti-pirateria che punta da un lato a in­coraggiare la diffusione legale di contenuti sul Web e dal­l’altro a dissuadere i siti dal pubbli­care materiale protetto dal copyright. Le case discografiche attive in Cina, invece, constatato che la pirateria rappresenta il 99% del mercato mu­sicale nazionale, si sono adeguate: lasciano scaricare la musica gratis e cercano i soldi altrove. Hanno si­glato accordi con i motori di ricer­ca sugli spot che accompagnano le canzoni distribuite gratis, poi fan­no fare ai cantanti tournée intermi­nabili e li usano come testimonial dei prodotti più svariati. Le ugole ci­nesi più popolari guadagnano me­no dei loro colleghi occidentali, ma con questo sistema crescono. Pira­tati ma felici.
 
di Pietro Saccò