UFFICIO NAZIONALE PER LE COMUNICAZIONI SOCIALI
DELLA CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA

“Luoghi di parola” cercansi

Dalla Fiera del libro per ragazzi di Bologna arriva, grazie all’anticipazione che ne dà Avvenire, una intensa pagina di Roberto Piumini, poeta e scrittore molto attento soprattutto ai ragazzi e ai bambini, che riflette sul preoccupante impoverimento delle capacità espressive del nostro idioma.
16 Marzo 2012
Mi è accaduto di sentirmi nominare come «nuovo Rodari» o «erede di Ro­dari ». Ancora oggi accade, ma so­lo da parte di osservatori superfi­ciali: chi ha sguardo attento ha da tempo riconosciuto le diffe­renze, anche profonde, tra Roda­ri e me. Assimilando campi di­versi del piano formativo e politi­co, Rodari sta accanto a figure come don Milani, Munari, Lodi, Dolci, ai promotori di democra­zia espressiva. Tutti quelli che si occupano di educazione e valori democratici hanno debiti essen­ziali con lui. Per inquietudine, o una specie di bulimia espressiva, ho scritto molto, costruendo un’impalcatura di scritture so­vrabbondante e quasi caotica. In prosa e, soprattutto, in poesia, la mia scelta non è, come in Rodari, «didattica» o «animativa», ma e­stetica e formale. Quello che la prosa, e soprattutto la poesia di Rodari, stimolano e sviluppano come «testo-gioco», «testo-sti­molo », io l’affido alla dinamica e­stetico/ emozionale dei testi. Il «fattore di sviluppo», come era chiamato dai pedagogisti di un tempo, il gioco creativo linguisti­co, che in lui è mostrato e giocato come tale, in me è interno al te­sto, dato come esperienza godi­bile e stimolante nella lettura.

L’atto educativo in Rodari è di­dattico, in me estetico. Lui agisce con la combinatoria contenuti­stico- formale, io con la comples­sità arricchente della scrittura/lettura. Può essere utile, per chiarire, ricordare un episo­dio. Negli anni 80 ci fu un grande sviluppo dei libri-game, che pro­ponevano percorsi narrativi al­ternativi a seconda di certe scelte distribuite nel testo. Erano libri che imitavano la dinamica dei vi­deogame: Rodari li aveva in realtà precorsi da anni, con le sue storie a diversi finali. Un editore mi propose di scrivere u­no o più di quei libri. Ri­fiutai istintivamente. Mi disturbava l’ipotesi di scrivere una storia con di­versi finali. Motivai il ri­fiuto dicendo che il mio stile era poco adatto alla «velocità» consumatoria di quel tipo di letture. Mi risposero che si poteva correre il rischio: al massimo, ci sarebbero stati dei libri-game un po’ più «letterari» degli altri. Dovetti così cercare una ragione migliore per il mio rifiuto, e lo feci articolando meglio la prima obiezione. Nel li­bri- game, fondamentale è la performance: la lettura corre o­rizzontalmente, curiosa e impa­ziente di quello che può accade­re, di ciò che si può fare sceglien­do una o l’altra arma, questo o quel potere. L’elemento di sor­presa, scoperta, emozione, è po­sto in un «orizzonte orizzontale». Parole, frasi, testo, sono veicoli per correre al finale, possibil­mente vittorioso.

Non era quella la lettura che volevo e che conside­ravo valida. La sorpresa, la scoperta e l’emozione che m’interessa proporre, sono quel­le della lettura che sprofonda «in verticale» nel testo, nello spesso­re semantico, attratta da bellez­za, ritmo, novità, intensità. La «li­bertà » della lettura non è sceglie­re fra finali diversi, ma immagi­nare, secondo la propria «cultu­ra » immaginaria. È la «libertà propria» della lettura che crea le immagini, fa germogliare la pa­rola- seme nel terreno della me­moria, costruendo un mondo sensoriale/emotivo, totale, unico e libero. Quella mia obiezione valeva evidentemente anche ri­guardo i racconti dai molti finali di Rodari: non certo in quanto attività didatticamente possibile, e divertente, ma come cosa inte­ressante, o opportuna, per l’au­tore. Se Rodari, negli anni 60 e 70, è stato, come il maestro Man­zi, o, oggettivamente, le stesse ra­dio e televisione, fra i diffusori di una lingua italiana unitaria in contesto ancora quasi-dialettale, nella quarantina d’anni trascorsi la situazione è cambiata, e pur­troppo non in meglio. Il calore e colore dei dialetti, la loro espres­sività, non è stata sostituita da u­na ricchezza analoga della lingua comune: alcuni agenti in primo tempo positivi (la televisione so­prattutto) hanno anzi appiattito e impoverito il vissuto verbale in­dividuale e collettivo, insieme al­la scomparsa delle occasioni ora­li- corali di elaborazione e riso­nanza della parola. Senza adden­trarci nella sociologia linguistica, è venuta meno negli ultimi de­cenni una «competenza espressi­va » media del linguaggio, la sua ricchezza qualitativa, la sua fa­coltà espressiva «di base». Trala­sciando i modelli peggiori e più distruttivi (parole «da stadio» o loquela da suburra esistenziale del «Grande Fratello»), anche i luoghi «di parola» più qualificati, più adatti a produrre e stimolare espressione e comunicazione personale, sembrano inefficaci.

Corruptio optimi maxima: il lin­guaggio liturgico, che dovrebbe essere un culmine d’intensità-in­timità espressiva, nelle sue reda­zioni teologiche e pastorali, o è vuoto e stanco (la predicazione media) o una mistura astrusa di filosofemi e formule tardo-esi­stenzialiste: niente che suoni au­tentico e ricco di senso, sia per il «canto» collettivo che per la pre­ghiera. Scomparsi, e non sosti­tuiti, i luoghi-situazioni in cui si prolungavano e confermavano il calore e la pratica del linguaggio affettivo primario, quello che le­ga corpo/voce/parola di mamma e bambino, del piccolo o medio gruppo di gioco, della recitazio­ne/ celebrazione orale-corale, più o meno festosa, di vissuti e avvenimenti. Scomparsa, o sosti­tuita dall’alienazione del ka­raoke, ogni occasione individua­le o collettiva di «canto». Discor­so a parte vorrebbe, e articolato, per quanto riguarda la verbalità espressiva, il ruolo perduto, e perdente, della «parola d’arte», delegata agli specialisti, autori o attori, ai «pubblicatori», agli «e­sperti d’espressione». Commento ancor più severo meriterebbe la poesia (intesa come ambito let­terario) nonostante i pochi sforzi di qualcuno relegata in ghetti au­toreferenziali, estranei, nel biri­gnao depressivo di convegni e letture esclusive, sostanzialmen­te (e conflittualmente) legata alla dimensione editoriale, dedita al­le misteriose produttività della lettura silenziosa, «dal bianco della pagina al bianco della men­te ». S favorita, in questo, rispetto alla cultura anglosassone, dalla maggior distanza tra ambito d’arte e comunicazione, tra capacità poetica e «oralità» dei poeti, la poesia «istituziona­le » nostrana, spesso compiaciuta della sua «estraneità», ha abban­donato l’uso del «linguaggio gio­cato » (rima, verso, fonosimboli­smo, metafora, ritmo, arguzia fi­gurale...) alla pornografia della pubblicità. La pubblicità è in ef­fetti la forma linguistica del «poetico» oggi più diffusa, assai più di quella, poco meno degra­data, della canzonetta. Questa fe­nomenologia, certo frettolosa e brutale, serve a descrivere un campo che, rispetto alla parola e­spressiva, è pressoché deserto.

Gli unici due luoghi possibili per l’istituzione e il rafforzamento della parola espressiva (a parte il dialogo fisico-fonetico-affettivo tra madre e bambino, e quello, pure già a sua volta impoverito, tra gli amanti nello scambio ero­tico) sono, sul piano individuale, la lettura (come esperienza inti­ma e ri-costituente del senso), e su quello sociale (nonostante la criminale trascuratezza di cui è oggetto nei nostri tempi politici) la scuola.

 
di Roberto Piumini