L’atto educativo in Rodari è didattico, in me estetico. Lui agisce con la combinatoria contenutistico- formale, io con la complessità arricchente della scrittura/lettura. Può essere utile, per chiarire, ricordare un episodio. Negli anni 80 ci fu un grande sviluppo dei libri-game, che proponevano percorsi narrativi alternativi a seconda di certe scelte distribuite nel testo. Erano libri che imitavano la dinamica dei videogame: Rodari li aveva in realtà precorsi da anni, con le sue storie a diversi finali. Un editore mi propose di scrivere uno o più di quei libri. Rifiutai istintivamente. Mi disturbava l’ipotesi di scrivere una storia con diversi finali. Motivai il rifiuto dicendo che il mio stile era poco adatto alla «velocità» consumatoria di quel tipo di letture. Mi risposero che si poteva correre il rischio: al massimo, ci sarebbero stati dei libri-game un po’ più «letterari» degli altri. Dovetti così cercare una ragione migliore per il mio rifiuto, e lo feci articolando meglio la prima obiezione. Nel libri- game, fondamentale è la performance: la lettura corre orizzontalmente, curiosa e impaziente di quello che può accadere, di ciò che si può fare scegliendo una o l’altra arma, questo o quel potere. L’elemento di sorpresa, scoperta, emozione, è posto in un «orizzonte orizzontale». Parole, frasi, testo, sono veicoli per correre al finale, possibilmente vittorioso.
Non era quella la lettura che volevo e che consideravo valida. La sorpresa, la scoperta e l’emozione che m’interessa proporre, sono quelle della lettura che sprofonda «in verticale» nel testo, nello spessore semantico, attratta da bellezza, ritmo, novità, intensità. La «libertà » della lettura non è scegliere fra finali diversi, ma immaginare, secondo la propria «cultura » immaginaria. È la «libertà propria» della lettura che crea le immagini, fa germogliare la parola- seme nel terreno della memoria, costruendo un mondo sensoriale/emotivo, totale, unico e libero. Quella mia obiezione valeva evidentemente anche riguardo i racconti dai molti finali di Rodari: non certo in quanto attività didatticamente possibile, e divertente, ma come cosa interessante, o opportuna, per l’autore. Se Rodari, negli anni 60 e 70, è stato, come il maestro Manzi, o, oggettivamente, le stesse radio e televisione, fra i diffusori di una lingua italiana unitaria in contesto ancora quasi-dialettale, nella quarantina d’anni trascorsi la situazione è cambiata, e purtroppo non in meglio. Il calore e colore dei dialetti, la loro espressività, non è stata sostituita da una ricchezza analoga della lingua comune: alcuni agenti in primo tempo positivi (la televisione soprattutto) hanno anzi appiattito e impoverito il vissuto verbale individuale e collettivo, insieme alla scomparsa delle occasioni orali- corali di elaborazione e risonanza della parola. Senza addentrarci nella sociologia linguistica, è venuta meno negli ultimi decenni una «competenza espressiva » media del linguaggio, la sua ricchezza qualitativa, la sua facoltà espressiva «di base». Tralasciando i modelli peggiori e più distruttivi (parole «da stadio» o loquela da suburra esistenziale del «Grande Fratello»), anche i luoghi «di parola» più qualificati, più adatti a produrre e stimolare espressione e comunicazione personale, sembrano inefficaci.
Corruptio optimi maxima: il linguaggio liturgico, che dovrebbe essere un culmine d’intensità-intimità espressiva, nelle sue redazioni teologiche e pastorali, o è vuoto e stanco (la predicazione media) o una mistura astrusa di filosofemi e formule tardo-esistenzialiste: niente che suoni autentico e ricco di senso, sia per il «canto» collettivo che per la preghiera. Scomparsi, e non sostituiti, i luoghi-situazioni in cui si prolungavano e confermavano il calore e la pratica del linguaggio affettivo primario, quello che lega corpo/voce/parola di mamma e bambino, del piccolo o medio gruppo di gioco, della recitazione/ celebrazione orale-corale, più o meno festosa, di vissuti e avvenimenti. Scomparsa, o sostituita dall’alienazione del karaoke, ogni occasione individuale o collettiva di «canto». Discorso a parte vorrebbe, e articolato, per quanto riguarda la verbalità espressiva, il ruolo perduto, e perdente, della «parola d’arte», delegata agli specialisti, autori o attori, ai «pubblicatori», agli «esperti d’espressione». Commento ancor più severo meriterebbe la poesia (intesa come ambito letterario) nonostante i pochi sforzi di qualcuno relegata in ghetti autoreferenziali, estranei, nel birignao depressivo di convegni e letture esclusive, sostanzialmente (e conflittualmente) legata alla dimensione editoriale, dedita alle misteriose produttività della lettura silenziosa, «dal bianco della pagina al bianco della mente ». S favorita, in questo, rispetto alla cultura anglosassone, dalla maggior distanza tra ambito d’arte e comunicazione, tra capacità poetica e «oralità» dei poeti, la poesia «istituzionale » nostrana, spesso compiaciuta della sua «estraneità», ha abbandonato l’uso del «linguaggio giocato » (rima, verso, fonosimbolismo, metafora, ritmo, arguzia figurale...) alla pornografia della pubblicità. La pubblicità è in effetti la forma linguistica del «poetico» oggi più diffusa, assai più di quella, poco meno degradata, della canzonetta. Questa fenomenologia, certo frettolosa e brutale, serve a descrivere un campo che, rispetto alla parola espressiva, è pressoché deserto.
Gli unici due luoghi possibili per l’istituzione e il rafforzamento della parola espressiva (a parte il dialogo fisico-fonetico-affettivo tra madre e bambino, e quello, pure già a sua volta impoverito, tra gli amanti nello scambio erotico) sono, sul piano individuale, la lettura (come esperienza intima e ri-costituente del senso), e su quello sociale (nonostante la criminale trascuratezza di cui è oggetto nei nostri tempi politici) la scuola.