UFFICIO NAZIONALE PER LE COMUNICAZIONI SOCIALI
DELLA CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA

Media e arte,
svaniscono
i confini…

Il confine tra ciò che è informa­zione e ciò che è arte, oggi, sembra essersi assottigliato a tal punto che l’arte supplisce spesso al ruolo che dovrebbe essere dei mass media. Approfondisce questo interessante tema la mostra Press Play, aperta da po­chi giorni a Torino alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo...
7 Febbraio 2012
Il confine tra ciò che è informa­zione e ciò che è arte, oggi, sembra essersi assottigliato a tal punto che l’arte supplisce spesso al ruolo che dovrebbe essere dei mass media. Naturalmente, è un confine ibrido, che ha molti elementi di ambiguità. Fino dove arriva l’infor­mazione e dove subentra l’arte, per esempio, nella celebre foto della Madre algerina scattata nel 1997 dal reporter Hocine? Vero è che quell’immagine presa dalla realtà venne usata per scopi che falsaro­no lo stesso 'contenuto informati­vo' dell’immagine, che da icona del dolore divenne una bandiera della propaganda occidentale con­tro il fondamentalismo islamico. Che cosa c’era di vero in quell’im­magine? Il pianto della donna e le ragioni di quel pianto: nella notte tra il 22 e il 23 settembre 1997, a Bentalha, piccola località poco lon­tana da Algeri, ebbe luogo una car­neficina con sgozzamenti di donne vecchi e bambini. La foto fece im­mediatamente il giro del mondo in poche ore e la protagonista diven­ne la mater dolorosa algerina a cui erano stati uccisi i figli. Ma la verità era un’altra, tragica ma meno scioccante di quella fornita dalla versione ufficiale: alla donna erano stati uccisi il fratello, la cognata e la nipote. Quella foto, dotata certa­mente di un elevato coefficiente ar­tistico, era invece falsa nel suo va­lore di informazione. Presentando la mostra Press Play, aperta da po­chi giorni a Torino alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, Irene Calderoni prende come emblema del rapporto fra arte e informazio­ne la Zattera della Medusa di Géri­cault. Il fatto è noto ed è tornato al­la memoria nei giorni del naufragio della Concordia. La nave Medusa portava in Senegal il nuovo gover­natore francese e naufragò per l’in­competenza e la superficialità dei suoi comandanti; l’equipaggio ven­ne lasciato alla deriva in mezzo all’Oceano su una zattera di fortuna. La cosa fece scalpore in Francia, una classe di potenti ven­ne messa alla gogna. Gé­ricault dipinse fra mille tormenti il suo grande quadro nel quale una pi­ramide umana ha al suo vertice un uomo di colore che sventola un drappo nel tentativo di farsi vede­re dai soccorritori. S candalo su scanda­lo: un 'negro' come vessillifero di quella zattera della vergogna. Inaudito! «Il quadro contraddiceva in un sol colpo tutte le regole estetiche del tempo, e lo faceva tramite un tema politico controverso» scrive Calderoni. Ma è proprio questa constatazione a mettere alla prova la mostra di Tori­no. Qual è la differenza fra l’infor­mazione e l’arte? L’essenza struttu­rante del particolare e lo stile che vi si manifesta. L’arte che prende la cronaca come tema decanta ciò che si vede, traduce la realtà in mo­do selettivo. L’opera di Hans-Peter Feldmann, per esempio, è stata realizzata nel 2001 e s’intitola 9 /12  Frontpage . È costituita dalle prime pagine di oltre 150 quotidiani del mondo il giorno dopo l’attentato alle due torri di New York. Un ele­mento ricorre uguale in tutte: l’im­magine dei due monoliti avvolti dalla nuvola di fumo. Ricorda i ca­mini nei crematori nazisti, dei qua­li Jorge Semprún scrisse che il fu­mo che usciva dalle loro bocche e­ra l’«ultimo segno del passaggio dell’anima e del corpo dei compa­gni». Ecco, quelle prime pagine e­un feticcio dove l’immagi­ne copre la visione dei tanti uomi­ni- topi prigionieri nella gabbia di cemento che di lì a pochi minuti crollerà. L’accostamento di quelle prime pagine monotematiche però invita a scomporre la percezione dell’insieme con metodo compara­tivo: che cosa le accomuna e che cosa le distingue? A parte il fraseg­gio e gli slogan che si ripetono mo­notoni, sia pure con interpretazioni diverse, dopo un po’ mi colpisce u­na differenza minima, una pagina diversa da tutte le altre, quella del 'The Sydney Morning Herald', che mostra le rovine di Liberty Plaza nel day after . Avverto uno scarto temporale in quell’immagine di­versa. Mi avvicino e mi accorgo an­che la data di pubblicazione è di­versa, non il 12 settembre ma il 13.
In un’opera che s’intitola 9 /12  Frontpage non è un particolare irri­levante. Sarà intenzionale, oppure è una svista? Se fosse così, si tratte­rebbe di una imprecisione che mette a rischio l’intero sistema simbolico dell’opera. Ma questo in­taccherebbe anche il suo valore ar­tistico. Preferisco pensarlo come dispositivo nascosto, il particolare strano di cui parlava Chastel, che attiva la domanda dello spetta­tore. E le risposte che possono venire da cia­scuno di noi, in fondo, sono meno importanti del fatto che l’opera ha messo alla prova la no­stra percezione della forma e ci ha insinuato un dubbio. Questa mo­stra aiuta a comprende­re che non il tema ma il modo di rappresentarlo e la qualità dei mezzi u­sati è ciò distingue l’ar­te dai mass media. La pratica 'riproduttiva' di Thomas Demand che prende l’immagine di uno studio televisivo, lo fa ricostruire in car­tone nei minimi detta­gli e lo rifotografa gio­cando sul concetto del 'simula­cro', però è quasi un artiglio spun­tato. Esiste un ritratto dell’impera­tore giapponese realizzato nel 1888 dal pittore Edoardo Chiossone.
Questa effigie – come ha scritto il filosofo Koji Taki – era chiamata Go-shin-ei («la sua vera immagi­ne »). La sua storia comincia dal modo con cui fu fabbricata. Il ri­tratto fu dipinto da Chiossone sen­za avere sotto gli occhi l’imperatore in posa, ma soltanto una sua foto, che il pittore trasformò nell’imma­gine di un comandante carismati­co e autorevole. Una volta completato, il dipinto venne fotografato e diffuso in mi­gliaia di copie in tutto il Pae­se: scuole, caserme, mercati, uffici e altri luoghi pubblici. Fu una vera e propria cam­pagna mediatica fondata su un’immagine 'artefatta'. In questa mancanza di 'auten­ticità', si trova anche la con­ferma 'rovesciata' delle tesi benjaminiane sulla riprodu­cibilità tecnica, qui, la perdita del­l’aura non riguarda l’opera d’arte ma l’icona del rappresentato, cioè la sacralità del potere. Così il teatri­no meccanico di Jon Kessler o le te­che del dolore di Thomas Hir­schhorn sono opere di denuncia, géricaultiane nello spirito, ma prive di quella forma 'essenziale' che le renda simboli di una condizione u­mana, ovvero troppo allineate all’e­stetica dell’orrore oggi vigente. Gli unici che escono dal ricatto 'performativo' dell’attualità sono Sebastian Diaz Morales e Fiona Tan. Il primo con un video che vie­ne proiettato su un muro nero e racconta la protesta a Buenos Aires innescata dalla crisi economica ar­gentina del 2001, sinopie di forme risucchiate dalla notte, che richia­mano in qualche misura i video del sudafricano William Kentridge.
Fiona Tan, invece, utilizza cine­giornali del primo Novecento creando un effetto décalage fra la qualità estetica delle immagi­ni e il tema della natura matrigna: questa sfasatura ha il proprio pun­to di sintesi poetico nella silhouette di un uomo su uno scoglio che guarda il mare, immagine antieroi­ca, contraltare di quella celebre del viandante di Caspar David Friedri­ch che in cima a una montagna contempla il futuro avvolto in un mare di nubi. L’arte, considerando il tema di questa mostra, è come il manichino che mentre rivela l’es­senza imperitura del mondo, la sua 'regalità', svela il moto di superfi­cie dei fenomeni, la loro transito­rietà rappresentata nell’informa­zione. Ed è per questo, forse, che l’'estetica di pietra' della Zattera di Géricault ha resistito alla cronaca e al passaggio di due burrascosi se­coli condensandone giorno dopo giorno l’essenza tragica.