Il confine tra ciò che è informazione e ciò che è arte, oggi, sembra essersi assottigliato a tal punto che l’arte supplisce spesso al ruolo che dovrebbe essere dei mass media. Naturalmente, è un confine ibrido, che ha molti elementi di ambiguità. Fino dove arriva l’informazione e dove subentra l’arte, per esempio, nella celebre foto della Madre algerina scattata nel 1997 dal reporter Hocine? Vero è che quell’immagine presa dalla realtà venne usata per scopi che falsarono lo stesso 'contenuto informativo' dell’immagine, che da icona del dolore divenne una bandiera della propaganda occidentale contro il fondamentalismo islamico. Che cosa c’era di vero in quell’immagine? Il pianto della donna e le ragioni di quel pianto: nella notte tra il 22 e il 23 settembre 1997, a Bentalha, piccola località poco lontana da Algeri, ebbe luogo una carneficina con sgozzamenti di donne vecchi e bambini. La foto fece immediatamente il giro del mondo in poche ore e la protagonista divenne la mater dolorosa algerina a cui erano stati uccisi i figli. Ma la verità era un’altra, tragica ma meno scioccante di quella fornita dalla versione ufficiale: alla donna erano stati uccisi il fratello, la cognata e la nipote. Quella foto, dotata certamente di un elevato coefficiente artistico, era invece falsa nel suo valore di informazione. Presentando la mostra Press Play, aperta da pochi giorni a Torino alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, Irene Calderoni prende come emblema del rapporto fra arte e informazione la Zattera della Medusa di Géricault. Il fatto è noto ed è tornato alla memoria nei giorni del naufragio della Concordia. La nave Medusa portava in Senegal il nuovo governatore francese e naufragò per l’incompetenza e la superficialità dei suoi comandanti; l’equipaggio venne lasciato alla deriva in mezzo all’Oceano su una zattera di fortuna. La cosa fece scalpore in Francia, una classe di potenti venne messa alla gogna. Géricault dipinse fra mille tormenti il suo grande quadro nel quale una piramide umana ha al suo vertice un uomo di colore che sventola un drappo nel tentativo di farsi vedere dai soccorritori. S candalo su scandalo: un 'negro' come vessillifero di quella zattera della vergogna. Inaudito! «Il quadro contraddiceva in un sol colpo tutte le regole estetiche del tempo, e lo faceva tramite un tema politico controverso» scrive Calderoni. Ma è proprio questa constatazione a mettere alla prova la mostra di Torino. Qual è la differenza fra l’informazione e l’arte? L’essenza strutturante del particolare e lo stile che vi si manifesta. L’arte che prende la cronaca come tema decanta ciò che si vede, traduce la realtà in modo selettivo. L’opera di Hans-Peter Feldmann, per esempio, è stata realizzata nel 2001 e s’intitola 9 /12 Frontpage . È costituita dalle prime pagine di oltre 150 quotidiani del mondo il giorno dopo l’attentato alle due torri di New York. Un elemento ricorre uguale in tutte: l’immagine dei due monoliti avvolti dalla nuvola di fumo. Ricorda i camini nei crematori nazisti, dei quali Jorge Semprún scrisse che il fumo che usciva dalle loro bocche era l’«ultimo segno del passaggio dell’anima e del corpo dei compagni». Ecco, quelle prime pagine eun feticcio dove l’immagine copre la visione dei tanti uomini- topi prigionieri nella gabbia di cemento che di lì a pochi minuti crollerà. L’accostamento di quelle prime pagine monotematiche però invita a scomporre la percezione dell’insieme con metodo comparativo: che cosa le accomuna e che cosa le distingue? A parte il fraseggio e gli slogan che si ripetono monotoni, sia pure con interpretazioni diverse, dopo un po’ mi colpisce una differenza minima, una pagina diversa da tutte le altre, quella del 'The Sydney Morning Herald', che mostra le rovine di Liberty Plaza nel day after . Avverto uno scarto temporale in quell’immagine diversa. Mi avvicino e mi accorgo anche la data di pubblicazione è diversa, non il 12 settembre ma il 13.
In un’opera che s’intitola 9 /12 Frontpage non è un particolare irrilevante. Sarà intenzionale, oppure è una svista? Se fosse così, si tratterebbe di una imprecisione che mette a rischio l’intero sistema simbolico dell’opera. Ma questo intaccherebbe anche il suo valore artistico. Preferisco pensarlo come dispositivo nascosto, il particolare strano di cui parlava Chastel, che attiva la domanda dello spettatore. E le risposte che possono venire da ciascuno di noi, in fondo, sono meno importanti del fatto che l’opera ha messo alla prova la nostra percezione della forma e ci ha insinuato un dubbio. Questa mostra aiuta a comprendere che non il tema ma il modo di rappresentarlo e la qualità dei mezzi usati è ciò distingue l’arte dai mass media. La pratica 'riproduttiva' di Thomas Demand che prende l’immagine di uno studio televisivo, lo fa ricostruire in cartone nei minimi dettagli e lo rifotografa giocando sul concetto del 'simulacro', però è quasi un artiglio spuntato. Esiste un ritratto dell’imperatore giapponese realizzato nel 1888 dal pittore Edoardo Chiossone.
Questa effigie – come ha scritto il filosofo Koji Taki – era chiamata Go-shin-ei («la sua vera immagine »). La sua storia comincia dal modo con cui fu fabbricata. Il ritratto fu dipinto da Chiossone senza avere sotto gli occhi l’imperatore in posa, ma soltanto una sua foto, che il pittore trasformò nell’immagine di un comandante carismatico e autorevole. Una volta completato, il dipinto venne fotografato e diffuso in migliaia di copie in tutto il Paese: scuole, caserme, mercati, uffici e altri luoghi pubblici. Fu una vera e propria campagna mediatica fondata su un’immagine 'artefatta'. In questa mancanza di 'autenticità', si trova anche la conferma 'rovesciata' delle tesi benjaminiane sulla riproducibilità tecnica, qui, la perdita dell’aura non riguarda l’opera d’arte ma l’icona del rappresentato, cioè la sacralità del potere. Così il teatrino meccanico di Jon Kessler o le teche del dolore di Thomas Hirschhorn sono opere di denuncia, géricaultiane nello spirito, ma prive di quella forma 'essenziale' che le renda simboli di una condizione umana, ovvero troppo allineate all’estetica dell’orrore oggi vigente. Gli unici che escono dal ricatto 'performativo' dell’attualità sono Sebastian Diaz Morales e Fiona Tan. Il primo con un video che viene proiettato su un muro nero e racconta la protesta a Buenos Aires innescata dalla crisi economica argentina del 2001, sinopie di forme risucchiate dalla notte, che richiamano in qualche misura i video del sudafricano William Kentridge.
Fiona Tan, invece, utilizza cinegiornali del primo Novecento creando un effetto décalage fra la qualità estetica delle immagini e il tema della natura matrigna: questa sfasatura ha il proprio punto di sintesi poetico nella silhouette di un uomo su uno scoglio che guarda il mare, immagine antieroica, contraltare di quella celebre del viandante di Caspar David Friedrich che in cima a una montagna contempla il futuro avvolto in un mare di nubi. L’arte, considerando il tema di questa mostra, è come il manichino che mentre rivela l’essenza imperitura del mondo, la sua 'regalità', svela il moto di superficie dei fenomeni, la loro transitorietà rappresentata nell’informazione. Ed è per questo, forse, che l’'estetica di pietra' della Zattera di Géricault ha resistito alla cronaca e al passaggio di due burrascosi secoli condensandone giorno dopo giorno l’essenza tragica.