Patrick de Carolis, già presidente e direttore generale di France Télévisions, è uno dei relatori nella seduta inaugurale dell’assemblea plenaria del Pontificio Consiglio della Cultura, oggi alle 16,30 in Campidoglio; con lui (la cui relazione pubblichiamo per stralci in questa pagina) parleranno il critico televisivo Aldo Grasso (foto a destra) e il gesuita padre Lloyd Baugh. Da domani i lavori proseguiranno sul tema «Cultura della comunicazione e nuovi linguaggi »; dopo l’introduzione del presidente monsignor Gianfranco Ravasi (foto a sinistra), intervengono il vescovo di Regensburg Gerhard Ludwig Muller e il reverendo Robert Barron. Venerdì è la volta di Enzo Bianchi, fondatore di Bose, e dell’amministratore delegato di Microsoft Italia Pietro Scott Jovane. Le conclusioni dei lavori sono previste nella mattinata di sabato, con l’udienza di Benedetto XVI.
Metti il Louvre in prima serata...
Vorrei semplicemente farvi partecipi di un’esperienza personale: quella di un uomo di televisione che in tutto il suo percorso ha cercato di usare un mezzo di comunicazione di massa per consentire al pubblico più vasto e popolare possibile di entrare nel sancta sanctorum della cultura mondiale. Perché, se mi consentite di parafrasare ciò che scriveva Albert Camus nel suo Discorso di Svezia, «contrariamente al pregiudizio corrente, gli uomini di cultura e gli artisti non hanno diritto alla solitudine, poiché l’arte – scrive Camus, e consentitemi di aggiungere: la cultura – non possono essere monologhi». Spezzare il pregiudizio denunciato da Albert Camus e fare in modo che ognuno potesse instaurare un dialogo con la cultura non era un’idea scontata nel mondo televisivo. Tuttavia è stata quest’idea a presiedere alla creazione del programma culturale Des Racines e des Ailes («Radici e ali») e ad ispirare tutta la politica che ho promosso alla guida del gruppo France Télévisions negli ultimi cinque anni.
Bisogna dire che in Francia «la cultura» è anzitutto «il libro» e che ogni tentativo di far posto alla cultura sugli schermi televisivi scatena immediatamente lo scetticismo, se non addirittura l’ironia. A tal proposito ho due aneddoti che illustrano piuttosto bene quest’atteggiamento.
Quando, 13 anni fa, ho proposto di chiamare il mio nuovo programma «Radici e ali», ispirandomi a un bellissimo poema sanscrito per il quale la cosa più bella che si possa regalare ai figli sono appunto le radici e le ali, il direttore dei programmi dell’epoca alzò le braccia al cielo esclamando: «Ma non dirlo nemmeno per scherzo! Non è un titolo da televisione, è troppo letterario… ». In seguito, una volta accettato il titolo del programma, gli proposi di piazzare le telecamere al museo del Louvre per la prima puntata; lui mi guardò con aria allarmata e mi disse: «Le riprese in un museo? In prima serata? Quando ci sono più telespettatori... È una follia e non funzionerà mai». Non solo la trasmissione ha funzionato, ma esiste ancora, 13 anni dopo, e totalizza ogni volta diversi milioni di telespettatori. In effetti, sono fermamente convinto che si possano guidare fino alle vette del pensiero e della creatività uomini e donne che non sembravano destinati a scalarle. Per farlo però occorre: 1) parlare loro 2) accompagnarli 3) guidarli e stabilire un rapporto di fiducia con loro. Potete capire, credo, ciò che sto per confidarvi. Ogni volta che prego, chiedo a Dio una sola cosa: che illumini la mia strada perché possa procedere nella sua luce. Ma credo che ognuno di noi debba, a sua volta e secondo le sue possibilità, illuminare la strada di coloro che – per qualunque motivo – vedono peggio di noi e camminano a tentoni.
Così, nel posto che mi è stato assegnato e con i mezzi che il mestiere mi metteva a disposizione, ho cercato di illuminare la strada di milioni di telespettatori sui sentieri della conoscenza, della cultura e della bellezza. L’aspirazione alla cultura e all’emozione artistica, a mio parere, sono essenziali perché manifestano in modo sensibile la sete di trascendenza che esiste in tutti gli uomini. André Malraux diceva in sostanza: «La letteratura, come ogni forma d’arte, è fatta per dirci che la vita (così com’è) non basta…». A questa aspirazione deve poter rispondere anche un mezzo di comunicazione sociale come la televisione, che troppo spesso lusinga i nostri istinti più bassi. Nel fare ciò, salva l’onore e dimostra la sua utilità sociale. Ma la televisione non è responsabile di tutti i mali perché troppo spesso la cultura, in Francia in particolare, è la riserva di caccia di un’élite educata a rivolgersi soltanto a sé stessa e a quelli che Stendhal avrebbe designato con l’anglismo di happy few, i «pochi eletti». Ebbene: il mio ruolo è stato convincere quegli uomini e quelle donne di cultura ad aprire i luoghi che custodivano, ma anche aiutarli a condividere i tesori di scienza e di umanità che possedevano. Per questo ho chiesto loro di sbarazzarsi del senso di eccellenza, per non dire di superiorità, che talvolta dimostravano. Ho chiesto loro di abbandonare il linguaggio tecnico della specializzazione o della professione e ho cercato di convincerli a non pensare al giudizio dei colleghi, per rivolgersi unicamente al telespettatore. Proprio come gli abiti che indossiamo tradiscono uno status sociale e creano immediatamente una distanza, le parole talvolta possono trasformarsi in uniformi del pensiero. Così tutti coloro che sono intervenuti alle mie trasmissioni hanno accettato di parlare in maniera appropriata ma semplice, rendendo il messaggio direttamente assimilabile dal pubblico. Per far passare un messaggio complesso in televisione conosco una sola regola: partire sempre dall’umano, perché solo ciò che è umano può essere direttamente condiviso.
Quest’affermazione estrapolata dal contesto può apparire vuota e perentoria, ma è estremamente concreta. In realtà, significa raccontare storie e permettere a ogni individuo di identificarsi o proiettarsi nell’altro. Nelle mie trasmissioni raccontavo sia percorsi di uomini e donne vissuti nel passato, sia percorsi di uomini e donne in contatto continuo con la bellezza del mondo e il mondo delle idee. Quando ho dovuto parlare della bellezza delle cose – che si trattasse di una città, di un monumento o di un’opera d’arte – ho sempre costruito le mie trasmissioni sul rapporto che gli uomini avevano con quelle cose. Se volete intercettare l’attenzione del pubblico e fargli osservare il dettaglio di un’architettura, lo stile di un mobile o la composizione di un quadro, dovete subito e per prima cosa raccontargli una storia e una storia umana. È quella che in gergo professionale chiamiamo «editorializzazione ». Per far ciò ho dovuto trovare degli esperti, storici o artisti che sapessero raccontare storie e avessero non solo la capacità di essere autentici trasmettitori ma anche la volontà di farsi capire. Una volta trovato il vostro «trasmettitore di sapere», e dopo averlo convinto che la televisione non è il diavolo, resta da metterlo in scena.
Ciò non significa fargli recitare un ruolo che non è il suo, sarebbe ridicolo e inefficace, bensì metterlo nella condizione di rivolgersi non a voi stessi bensì ai milioni di telespettatori che lo guardano. Così la prima regola che mi sono sempre dato è di non riprendere mai i miei «trasmettitori di sapere» seduti in maestà dietro la cattedra. Li ho sempre ripresi in movimento mentre camminano, salgono scale, aprono porte, percorrono corridoi, sbucano in cima a una torre o in una terrazza o attraversano giardini. Se intervistate un esperto seduto in poltrona, non riuscirete a farlo uscire dal ruolo istituzionale. Se camminate con lui, invece, risponderà con molta più naturalezza e semplicità. In questo modo diventa accessibile e cade da sé il muro che la funzione, i titoli e il sapere erigevano tra lui e i telespettatori. Il pubblico può immediatamente identificarsi con lui e appropriarsi dei luoghi che custodisce, anche i più sensazionali. In quel momento si crea una relazione diretta e insostituibile tra telespettatore e mediatore. A mio parere questo è l’unico modo per mostrare che ogni argomento, anche il più fondamentale, è accessibile: perché esistono uomini e donne che possono consentirne l’accesso.
di Patrick De Carolis
(traduzione Anna Maria Brogi)