Il giornalismo. Cioè (o dovrebbe essere) «un racconto intelligente della vita reale delle persone». Cioè (o è stato un tempo) quando da una professione abbracciata per «passione personale» si fa scaturire «il benessere collettivo». E invece, dopo averne dato queste definizioni ideali, la domanda posta ieri dal cardinale Dionigi Tettamanzi è stata: «Giornali e tv contribuiscono davvero a costruire l’opinione pubblica quando si lasciano contagiare dal clima avvelenato di una politica che dimentica i bisogni reali delle persone?». Nell’incontro milanese con i giornalisti in occasione della festa di San Francesco di Sales, l’arcivescovo, sulla «responsabilità » dei comunicatori, ha avuto come interlocutori direttori di testate nazionali che hanno, essi per primi, ammesso che «la credibilità» è il primo problema che oggi devono affrontare i professionisti dell’informazione.
«Autocritiche» sulla professione sono arrivate da Enrico Mentana, direttore del Tg La7 («L’informazione è corrotta dalla faziosità. Dopo i giorni delle notizie urlate, ritroveremo la capacità di raccontare?»), da Mario Calabresi, direttore della Stampa ( «Bisogna recuperare il senso delle proporzioni, del contesto, saper rinunciare a informazioni inutili e scegliere cosa vale la pena pubblicare e cosa non serve»), dal direttore di Avvenire, Marco Tarquinio («Informare è dare spazio a quello che è davvero importante per la vita delle persone, aprendo gli occhi davvero, cioè senza tenerli fissi solo sul “Palazzo” e guardando i problemi dagli altri punti di vista»), e da don Antonio Sciortino, direttore di Famiglia cristiana («L’informazione conosce ormai solo le regole del “dossieraggio”: prima le opinioni, poi i fatti, e non importa se siano veri»).
Il dialogo a più voci ha legato fra loro i fatti di attualità degli ultimi tempi, dallo scandalo Ruby, al trattamento mediatico del delitto di Avetrana. Ha esaminato, con le suggestioni offerte dagli allievi delle scuole di giornalismo e da una giovane free-lance di formazione multimediale, Chiara Pelizzoni, le sfide alla luce dei nuovi mezzi di comunicazione. La cornice dell’incontro, lo storico Istituto dei ciechi di Milano, ha offerto uno spunto di riflessione sulla moltiplicazione degli “occhi”, degli obiettivi, dei riflettori: con parole di Eugenio Montale, si è arrivati alla conclusione che «fummo ciechi», ma «moltiplicando gli occhi siamo rimasti al buio».
Vecchi e nuovi, i media, per Tettamanzi, «presentano un Paese che sembra preda di un litigio isterico permanente». Si assiste «all’eccessiva esibizione del privato in pubblico», come quando, ad Avetrana, si è andati «oltre il reality», o come quando «si riempiono gli occhi di banalità e mediocrità ». Riguardo alle cronache politiche di oggi, «nessuno chiede di tacere fatti o indagini che riguardano quanti sono chiamati ad animare e a guidare il Paese e dai quali tutti attendono esemplarità, nel pubblico e nel privato – ha detto il cardinale –. Ma i problemi veri del nostro Paese non sono certo quanto da mesi leggiamo nelle cronache politiche».
Da dove ripartire? «Ci sono modelli alternativi di vita da raccontare – per il vescovo –. Ci sono persone e comunità che attendono di essere narrate perché hanno intuizioni, progettano, studiano, lavorano, conseguono successi». Il giornalista, «cattolico o laico», «testimonia la verità se non ostacola ma permette alle persone di accedere alla verità complessiva, più grande». Se fa il suo mestiere «con passione». «Siamo in una situazione di crisi – ha concluso Tettamanzi –: assumiamoci il compito di fare qualcosa per uscirne, visto che in troppi stanno abdicando a questo dovere morale».