C’ è un silenzio che è: niente da dire, vuoto, ignoranza; oppure paura di dire, non volersi impicciare, non volere fastidi. Questo silenzio non serve a niente, e non comunica niente. Anzi, è pericoloso. Come lo sono l’ignoranza, la vigliaccheria, l’omertà, il menefreghismo, l’indifferenza.
C’è una parola che è conformismo, moda, rumore. Che è volgare, offensiva, violenta. Che è morta, perché si ripete sempre uguale a se stessa. Quando la parola è così non serve a niente, e non comunica niente. Anzi è fastidiosa e dannosa, perché nasconde la verità dietro il chiacchiericcio. Per fortuna, però, il silenzio e la parola non sono soltanto così.
C’è un detto che tengo sempre presente. Non so chi ne sia l’autore. A volte viene attribuito a padre Turoldo, più spesso al solito saggio cinese. Recita: «Non fare un discorso, se basta una parola; non dire una parola, se basta un gesto; non fare un gesto, se basta il silenzio». In questa goccia di saggezza, il silenzio e la parola, apparentemente poli opposti e inconciliabili, si manifestano come due facce di una moneta preziosa per comunicare. Infatti, quando la parola è vera non ha bisogno di lungaggini: va diritta all’essenziale. Diventata semplice, si trasforma in gesto: quando è autentico e limpido, crea il silenzio, la riflessione, la meditazione, la comprensione. Questo silenzio non è quello del vuoto, dell’ignoranza, della paura, dell’indifferenza, ma il campo interiore dove possono nascere parole vere e significative. Questo è il campo urgente da dissodare e coltivare.
Siamo pieni di parole vuote, conformiste, perbenistiche. Ho sentito una tipa alla radio che si è preoccupata di rendere più buonista un vecchio proverbio: «La gatta frettolosa fa i figli... non vedenti». Siamo tempestati da interviste di calciatori che non vanno oltre il «sono contento », se hanno vinto, e «mi dispiace» se hanno perso; oppure di familiari colpiti dalla morte tragica di congiunti, pressati per far loro dichiarare di essere molto addolorati. Siamo ammorbati da dibattiti dove le parole non esprimono idee, ma posizioni prestabilite, perciò se uno dice «bianco» l’altro dirà inevitabilmente «nero», salvo poi scambiarsi le parti. Parole così non portano al silenzio, ma alla rissa, all’insulto, alla volgarità. Non cercano la verità, ma l’applauso. Che, infatti, non manca mai, soprattutto per le parole più vuote e volgari. È urgente ritrovare parole vere, semplici, cariche che portino fino al silenzio che permette di ascoltarle, meditarle, rigenerarle. È per questo che il tema proposto per la
prossima Giornata mondiale delle comunicazioni sociali, «Silenzio e Parola: cammino di evangelizzazione», dopo un attimo di sconcerto, mi è apparso geniale e provvidenziale. Dobbiamo ritrovare parole semplici, vere, pregnanti che non siano «bronzo che rimbomba o cimbalo che strepita». Serve come il pane un silenzio che non sia indifferenza, ma dialogo e discernimento.