Forse non tutti ricordano l’esitazione che aveva accompagnato l’approvazione dell’Inter
mirifica, il primo documento licenziato dal Concilio Vaticano II. Cinquant’anni dopo, le titubanze sono solo un ricordo di fronte a quello che l’Inter
mirifica ha prodotto nella Chiesa. Il documento si introduceva, peraltro, con una splendida affermazione circa «le meravigliose invenzioni della tecnica… che più direttamente riguardano le facoltà spirituali dell’uomo e che hanno offerto nuove possibilità di comunicare» (n. 1), il che lasciava trapelare lo sguardo originale con cui guardare a questa novità dei tempi moderni. La scelta dell’ Inter
mirifica non è stata più abbandonata e di lì sono andate consolidandosi alcune linee di sviluppo che oggi si fanno più chiare. Ne enumero almeno tre.
La prima: la scelta di un approccio non specialistico, che fa degli strumenti della comunicazione sociale non un fatto tecnico, ma una questione antropologica, dove la variabile umana appare decisiva.
La seconda: la percezione di un cambio d’epoca e non solo di un’epoca di cambiamenti, direbbe papa Francesco. L’Istruzione pastorale del 1971 (
Communio et Progressio), che verrà redatta per dare compimento all’incompiutezza dell’Inter
mirifica , pone un interrogativo che presagisce la rivoluzione digitale che sta per appalesarsi: «A questo punto si pone un problema molto difficile, se siamo cioè alla soglia di un’era totalmente nuova della comunicazione sociale oppure no; se, in altre parole, nelle comunicazioni si sta operando non soltanto un progresso di quantità, ma anche di qualità» (n. 181).
La terza: la sfida di un linguaggio che dovrebbe giungere a tutti, ma con la capacità di penetrare dentro la coscienza di ciascuno. Non alla massa impersonale degli individui anonimi ed equivalenti, ma ad ogni singolo membro della famiglia umana, facendo appello proprio alla sua irripetibile unicità. Paolo VI, nella
Evangelii nuntiandi (8 dicembre 1975) lo dice con chiarezza: «Nel nostro secolo, contrassegnato dai mass media o strumenti di comunicazione sociale, il primo annuncio, la catechesi o l’approfondimento ulteriore della fede, non possono fare a meno di questi mezzi (...). Posti al servizio del Vangelo, essi sono capaci di estendere quasi all’infinito il campo di ascolto della Parola di Dio, e fanno giungere la Buona Novella a milioni di persone. La Chiesa di sentirebbe colpevole di fronte al suo Signore se non adoperasse questi potenti mezzi, che l’intelligenza umana rende ogni giorno più perfezionati; servendosi di essi la Chiesa 'predica sui tetti' il messaggio di cui è depositaria; in loro essa trova una versione moderna ed efficace del pulpito. Grazie ad essi riesce a parlare alle moltitudini. Tuttavia l’uso degli strumenti di comunicazione sociale per l’evangelizzazione presenta una sfida: il messaggio evangelico dovrebbe, per il loro tramite, giungere a folle di uomini, ma con la capacità di penetrare nella coscienza di ciascuno, di depositarsi nel cuore di ciascuno, come se questi fosse l’unico, con tutto ciò che egli ha di più singolare e personale, e di ottenere a proprio favore un’adesione, un impegno del tutto personale» (n. 45).
Inter mirifica, Communio et progressio ed
Evangelii nuntiandi sono il triangolo concettuale da ritrovare se vogliamo riannodare i fili di un rapporto, quello tra fede e comunicazione, che a ogni epoca si presenta in modo nuovo.
Un rapporto che oggi deve misurarsi con le sfide del digitale. La novità oggi è il fatto di trovarci in una stagione che già Walter Ong aveva definito di «oralità secondaria». Per un verso siamo tornati a scrivere su smartphone e tablet, per un altro verso questa comunicazione è quasi parlata e segnata da una ricerca di interlocuzione che cerca relazioni prima che contenuti, e che utilizza forme colloquiali, gergali, contratte molto più vicine alla lingua parlata che a quella scritta. McLuhan definiva questa oralità secondaria, rintracciabile allora nel linguaggio giovanile e oggi in quello della Rete, come «visibile speech»: «parola parlata visibile» più che «parola scritta».
Parola che, in ogni caso, mette al centro la relazione. Come sottolinea anche l’ultimo Rapporto Censis-Ucsi, intitolato
L’evoluzione digitale della specie: «Le tecnologie digitali si stanno fondendo con la nostra dimensione corporea e mentale (...) perché di fatto non sono più ’media’, cioè qualcosa che sta ’in mezzo’ tra una cosa e l’altra. Gli strumenti digitali ’sono’ la cosa che si forma dalla fusione di noi stessi con i dispositivi telematici. Per questo motivo, si può sostenere che è in corso una vera e propria evoluzione della specie, un salto qualitativo delle nostre attitudini e capacità». Non basta però registrare la novità sul piano quantitativo, con tutte le curiosità sulla dieta mediatica che si trasforma e sulla priorità dell’uno o l’altro strumento, o la loro convergenza. Occorre mettere a tema lo scarto qualitativo che la novità tecnica comporta, e che ci aiuta a rileggere nella giusta prospettiva il rapporto tra ciò che è nuovo e ciò che è antico, tra le meravigliose invenzioni e i bisogni antropologici originari: la rinnovata centralità della relazione, che precede ogni passaggio di contenuti e ne è condizione imprescindibile. E, dunque, riconoscere, che, grazie anche alle meraviglie della tecnica, oggi il linguaggio è relazionale prima che referenziale. Come ben ci mostra, peraltro, papa Francesco con la sua catechesi quotidiana in cui parole e azioni, medium e messaggio coincidono. Anche nei nuovi ambienti digitali dunque, se riusciamo a farci testimoni, il medium più prezioso siamo noi.
Domenico Pompili