UFFICIO NAZIONALE PER LE COMUNICAZIONI SOCIALI
DELLA CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA

Non solo network

Padre Antonio Spadaro ha appena pubblicato il volume "Cyberteologia, pensare il cristianesimo al tempo della rete". Grazie ad Avvenire ve ne offriamo un capitolo, in cui il direttore de La Civiltà Cattolica ci aiuta a riflettere sul ruolo della Chiesa come "piattaforma di connessioni", che non può però esaurirne l'identità.  
4 Aprile 2012
Dwight J. Friesen, professore as­sociato di Teologia pratica presso la Mars Hill Graduate School di Seattle, immagina «il regno di Dio nei termini di essere relazio­nalmente connessi con Dio, gli uni con gli altri, e con tutta la creazione». In questa visione certo possiamo ri­trovare quella del Compendio del Ca­techismo della Chiesa Cattolica, che afferma la sacramentalità della Chie­sa nel suo essere «strumento della ri­conciliazione e della comunione di tutta l’umanità con Dio e dell’unità di tutto il genere umano». Il pensiero di Friesen esprime una visio­ne della Chiesa propria della cosiddetta emerging church, un ampio movi­mento, complesso e fluido, dell’area evangelico-cari­smatica, che intende reim­piantare la fede cristiana nel nuovo contesto post­cristiano. Esso va al di là delle singole confessioni cristiane e si caratterizza per il rifiuto delle struttu­re ecclesiali cosiddette “so­lide”. Molta enfasi è invece posta sui paradigmi rela­zionali, su tutte le espres­sioni che – citando Zyg­munt Bauman – potrem­mo definire “liquide” del­la comunità, su approcci i­nediti e fortemente creati­vi alla spiritualità e al culto. Ne risul­ta una Chiesa «organica, intercon­nessa, decentralizzata, costruita dal basso, flessibile e sempre in evolu­zione». In questa immagine sembra che la na­tura e il mistero della Chiesa si dilui­scano nell’essere uno “spazio con­nettivo”, un hub di connessioni, che supporta un’“autorità connettiva” il cui scopo consiste sostanzialmente nel connettere le persone. La me­tafora scelta, il modello, è Google. Scrive infatti Friesen che Google ci aiuta a comprendere meglio i con­nective leaders , perché il noto moto­re di ricerca non è in se stesso l’infor­mazione che cerchiamo, ma ciò che ci collega a quello che cerchiamo. Nessuno visita il sito di Google per se stesso, per visitare il sito, ma per rag­giungere ciò che cerca. Dunque, con­clude Friesen, «questa visione con­nettiva (networked) di leadership è vi­tale per comprendere chi sia il leader connettivo e quale autorità relazio­nale sia in ballo in una visione rela­zionale connettiva (networked) del mondo». L’autorità di Google non è intrinseca, ma è qualcosa che il mo­tore si guadagna consegnando ai suoi utenti le connessioni che riesce a sta­bilire. Questa è l’“autorità connetti­va” di Google: la sua capacità di met­tere in relazione. L’idea di Chiesa che emerge da que­sta visione è quella di una Networked Church, che ripensa e ricomprende le strutture delle chiese locali. Esse di­ventano Christ-Commons, il cui sco­po primario è quello di creare e svi­luppare un ambiente connettivo do­ve è facile che la gente si raggruppi ( to cluster ) nel nome di Cristo. Per com­prendere questa idea, occorre chiari­re due concetti-chiave: quello di com­mon e quello di cluster . Il common è uno spazio connettivo pubblico qua­le, ad esempio, una piazza, un giardi­no pubblico di proprietà non privata. Questo termine è usato per indicare altre cose di carattere “comune”. In particolare, in rete l’espressione è ben nota perché indica una tipologia di li­cenze che permettono a quanti de­tengono diritti di copyright di tra­smetterne alcuni al pubblico e di con­servarne altri. Per esempio: di poter distribuire un testo originale senza però avere il diritto di modificarlo, op­pure di poterlo distribuire purché non in maniera da trarne profitto econo­mico. È una licenza destinata alla con­divisione senza tutte le restrizioni ti­piche del classico copyright, dunque. Tutto questo entra nell’idea del Chri­st Common, che è «una struttura visi­bile, qualcosa come un’istituzione, u­na denominazione, un edificio, una celebrazione, un piccolo gruppo che è formalmente creato con la speran­za che la struttura costituisca un am­biente o uno spazio dove le persone possano fare un’esperienza di vita in connessione con Dio e con gli altri».
La Chiesa, in questa visione, sarebbe dunque una struttura di supporto, un hub, una piazza, dove la gente può “raggrupparsi”, dar vita a gruppi, o meglio “grappoli” (cluster) di connes­sioni. Il termine cluster ha un’eco pre­cisa nel mondo della telematica, per­ché identifica un insieme di compu­ter connessi tramite una rete. Lo sco­po di un cluster è di distribuire un’e­laborazione molto complessa tra i va­ri computer che lo compongono. Questo ovviamente aumenta la po­tenza di calcolo del si­stema. Dunque la Chiesa come Christ Common non è un luogo di riferimento, non è un faro che in sé emette luce, ma una struttura di supporto. Il suo obiettivo non è far crescere i suoi membri, ma far cre­scere il regno di Dio.
Questa visione offre un’idea della comu­nità cristiana che fa proprie le caratteristi­che di una comunità virtuale leggera, senza vincoli storici e geo­grafici, fluida. Certo, questa orizzontalità aiuta molto a com­prendere la missione della Chiesa, che è inviata a evangelizzare. In effetti tut­ta l’impostazione della emerging ec­clesiology è fortemente missionaria. In questo senso valorizza la capacità connettiva e di testimonianza. D’altra parte sembra smarrirsi la compren­sione della Chiesa come “corpo mi­stico”, che si diluisce in una sorta di piattaforma di connessioni.