UFFICIO NAZIONALE PER LE COMUNICAZIONI SOCIALI
DELLA CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA

On line o off line, siamo sempre noi!

L’irruzione dei social network nelle nostre vite impone nuove domande sul rapporto tra l’esistenza sul web e quella in carne e ossa: si escludono, si ostacolano, si completano? Una pagina da non perdere di Avvenire del 9 settembre (Agorà Domenica) raccoglie le riflessioni di tre autorevoli esperti.
10 Settembre 2012
Il sociologo: Nathan Jurgenson
IN RETE E FUORI, IL NOSTRO IO RESTA UNO SOLO
Il potere dei social media di introdursi con forza nelle nostre vite quotidiane e la quasi-ubiquità delle nuove tecnologie ci hanno costretto a riconcettualizzare il digitale e il fisico: l’online e l’offline.
Molti sono vittime del pregiudizio che ritiene il digitale e il fisico come separati: io lo chiamo “dualismo digitale”. Il dualista digitale ritiene che il mondo digitale sia virtuale e che quello fisico sia reale. Questo pregiudizio motiva molte delle critiche a siti come Facebook, ma ritengo il dualismo digitale sostanzialmente fallace. Sostengo invece che il digitale e il fisico sono sempre più mescolati, e definisco questa prospettiva opposta, che “implode” atomi e bit piuttosto che tenerli concettualmente separati, “realtà aumentata”. Le realtà materiali e quelle digitali si co­costruiscono dialetticamente a vicenda. Questo si oppone all’idea che internet sia come Matrix , dove c’è un reale (Zion) che si abbandona quando si entra nello spazio virtuale (Matrix) – una prospettiva obsoleta, dato che Facebook è sempre più reale, e il nostro mondo sempre più digitale. Ho usato la prospettiva della realtà aumentata per criticare il dualismo ogni volta che l’ho incontrato. Per esempio il cyberattivismo e l’attivismo nel mondo fisico vanno colti nello stesso contesto, e ne vanno ricostruite le interazioni.
Considerato in se stesso, è vero, molto del cyberattivismo non conclude un granché. Ma usato congiuntamente agli sforzi offline può essere potente. E ovviamente la mia tesi è molto più facile da sostenere dopo le rivolte nel mondo arabo, che hanno usato sia le modalità di organizzazione digitale che quelle fisiche. Recentemente ho criticato la cyber-antropologa Amber Case per il suo uso superato dell’espressione della Turkle “secondo sé” ( second self ) per descrivere la nostra presenza online. La mia critica riguarda il fatto che separare concettualmente il primo e il secondo sé crea una falsa opposizione, poiché le persone ormai mescolano il loro sé fisico e quello digitale fino a rendere la distinzione irrilevante. Ma il dualismo continua ad abbondare. Libri famosi si ostinano a criticare i social media dalla prospettiva del dualismo digitale. Tutti questi lavori sostengono che il problema principale dei social media sia l’aver abbandonato la ricchezza del contatto fisico, reale, faccia a faccia per le relazioni digitali, virtuali e banali offerte da Facebook. La critica deriva dal pregiudizio sistematico che considera il fisico e il digitale come separati; spesso, come un trade off a somma zero in cui il tempo e le energie spesi da una parte sono sottratti all’altra. Questa è l’epitome del dualismo digitale. Ed è un inganno. Io propongo una prospettiva diversa, secondo la quale la nostra realtà è sia tecnologica che organica, sia digitale che fisica, insieme e nello stesso momento. Non entriamo e usciamo da realtà separate, una fisica e una digitale, alla Matrix , ma viviamo piuttosto in un’unica realtà, una realtà aumentata fatta di atomi e bit. E i nostri sé non sono scissi tra queste due sfere come come fossero un primo e un secondo sé contrapposti: formano piuttosto un sé aumentato. Un sé cyborg , come lo chiama Donna Haraway: fatto di un corpo fisico e di un profilo digitale che agiscono in dialogo costante. Il nostro profilo Facebook riflette chi conosciamo e che cosa facciamo offline, e le nostre vite offline risentono di ciò che accade in Facebook (per esempio, come cambiamo i nostri comportamenti perché siano meglio documentabili).
Soprattutto, le ricerche dimostrano ciò che gli utenti dei social media già sanno: non stiamo affatto scambiando una realtà per l’altra; al contrario, usare siti come Facebook di fatto accresce le opportunità di interazione offline. Non c’è un dualismo a somma zero. Come ha affermato recentemente il teorico della network society, Manuel Castells, «nessuno di coloro che sta sui social network ogni giorno (e questo accade per circa settecento del miliardo e duecento milioni di utenti) è più la stessa persona. È un’interazione online/offline, non un esoterico mondo virtuale». Questo non significa che i social media e il web non possano essere criticati. Certamente dovrebbero esserlo, e io sono tra quelli che intendono farlo. Tuttavia, le critiche dei social media dovrebbero prendere le mosse dall’idea di realtà aumentata. Una realtà aumentata dal digitale è una cosa buona?
 
La studiosa dei media: Chiara Giaccardi
ON LINE/OFF LINE? PER I NOSTRI FIGLI NON C'E' DIFFERENZA
Facciamo sempre fatica ad affrontare il cambiamento. Ciò che è nuovo ci spaventa, ci suscita un senso di perdita e nostalgia. Ma i mutamenti non possono essere arrestati.
Possono però essere indirizzati, se si riesce a interpretarli. È accaduto negli anni ’90 col processo di globalizzazione. Il nuovo millennio è invece all’insegna della digitalizzazione. Le dimensioni in gioco sono oggi online e offline: due termini molto più pertinenti di “reale” e “virtuale”, che non indicano mondi separati, antagonisti, ma articolazioni diverse dei nostri contesti esperienziali, relazionali, comunicativi. Una distinzione, forse, destinata a diventare a sua volta pleonastica: c’è infatti chi, come Floridi, sostiene che la nostra – gli “immigrati digitali” – sarà l’ultima generazione a distinguere ancora tra online e offline. Se oggi i digi­entusiasti (i nativi) sono troppo “dentro” per distinguere le insidie dell’ambiente, i digi-pessimisti (gli immigrati) sono troppo “fuori” per coglierne pienamente la portata e inclini a vedere solo i rischi. In ogni epoca storica (pensiamo alle preoccupazioni di Platone rispetto alla scrittura) ogni nuovo medium è stato visto come una potenziale minaccia disumanizzante e valutato sulla base di ciò che poteva “togliere”. L’era digitale ha prodotto una “nostalgia del reale”, e anche il rischio, che alcuni studiosi (tra cui Jurgenson) giustamente sottolineano, di una sua “feticizzazione”. Ma perché dovremmo coltivare il mito di una realtà pura, incontaminata dal digitale? Oggi viviamo in una realtà mista, fatta di atomi e bit, di organico e di tecnologico, di carbonio e di silicio. Dove la compresenza fisica non è certo di per sé garanzia di pienezza comunicativa. Come sostiene Jurgenson il dualismo digitale va superato, perché ci impedisce di interpretare il presente. Non dobbiamo scegliere tra online e offline; una dimensione non toglie necessariamente tempo e ruolo all’altra, anzi.
Relazioni che non sfruttano le opportunità di “manutenzione” offerte dal web sono destinate a impoverirsi. Ma forse anche l’idea stessa di faccia a faccia va ripensata: nell’incontro infatti portiamo ciò che ci siamo scritti, detti, mostrati online; esso a sua volta diventerà oggetto di scambi sul web. L’essere umano è uno. Ma c’è di più: non solo non dobbiamo, ma non possiamo separare materiale e digitale (come, da cristiani, possiamo distinguere ma non separare materia e spirito). La realtà, infatti, è una: ricca, diversificata, materiale e immateriale, mai totalmente riducibile al qui-ora, alla pura presenza fisica. Diventa a questo punto cruciale ripensare alla “cornice” entro la quale i singoli cambiamenti acquistano significato.
La cultura contemporanea oscilla tra i due ugualmente indesiderabili estremi del monismo materialista (Lafont), inevitabilmente riduzionista, e il dualismo digitale (Jurgenson) che divide e oppone ciò che sempre più si costruisce entro un legame di reciprocità. Esistono dunque le condizioni per una rinnovata riflessione ontologica (che cos’è la realtà nell’era digitale?) e per un’antropologia che tenga conto del mutato ambiente, del fatto che non siamo mai completamente disconnessi, anche quando i dispositivi sono spenti, e che il qui-ora è ormai sempre più “misto”. Un’ontologia che però non suoni semplicemente le campane della “realtà aumentata”.
Credo che un “realismo digitale” sia oggi un’utile declinazione del realismo critico; un “monismo plurale” in cui non c’è contrapposizione, per quanto li si possa distinguere, tra atomi e bit, bensì unità nella differenza. Forse il web ci può aiutare a ridimensionare la pesante eredità del dualismo che, da Platone a Cartesio, ha attraversato la cultura occidentale. Due sono i punti chiave di questo realismo digitale: la realtà esiste ed è complessa, multidimensionale, non riducibile alla somma delle sue parti; la realtà è comunque una. Il primo è ben illustrato dalla cosiddetta teoria dell’emergenza, che si iscrive nella tradizione del realismo critico: ci sono proprietà emergenti, che scaturiscono dall’interazione tra livelli di realtà sempre più complessi, che non esistevano prima di tale interazione, né erano prevedibili a partire dalle singole componenti. Il dualismo digitale impedisce la comprensione di quanto sta accadendo perché, tenendo separati i due livelli, si preclude di cogliere la realtà che emerge dalla loro interazione. Sia idrogeno che ossigeno alimentano la fiamma, mentre l’acqua la spegne: una proprietà non desumibile dalle due sostanze componenti.
Così è per la realtà mista che oggi va prendendo forma. Ma la realtà multidimensionale è comunque una. Distinguere i livelli non significa separarli. E riconoscere la ricchezza e pluralità del reale è un passo per liberarsi dalla prigione del materialismo. E riaprire la via del simbolico, dello spirituale, e perché no anche del trascendente. Come opportunamente suggerisce Lafont (Che cosa possiamo sperare? , Edb 2011), «tra il dualismo di due cose e il monismo di una sola, c’è l’unità dell’essere distintamente composto».
 
Il teologo: Antonio Spadaro
DOBBIAMO INDAGARE L'ONTOLOGIA DEL NUOVO MONDO IBRIDO
Le nuove tecnologie digitali e i social network non sono più interpretabili come semplici strumenti tecnologici, ma creano un ambiente che determina uno stile di pensiero, contribuendo a definire un modo nuovo di stringere le relazioni, addirittura un modo di abitare il mondo e di organizzarlo. Non si tratta di un ambiente separato, ma sempre più integrato, connesso con quello della vita quotidiana. Non un luogo specifico all’interno del quale entrare in alcuni momenti per vivere online, e da cui uscire per rientrare nella vita offline. Una delle sfide maggiori oggi è quella di non vedere nella Rete una realtà parallela, ma uno spazio antropologico interconnesso in radice con gli altri della nostra vita. Invece di farci uscire dal nostro mondo per solcare il mondo virtuale, la tecnologia ha fatto entrare il mondo digitale dentro il nostro mondo ordinario. I media digitali non sono porte di uscita dalla realtà, ma estensioni capaci di arricchire la nostra capacità di vivere le relazioni e scambiare informazioni. La Rete sembra essere un vero e proprio tessuto connettivo attraverso il quale esprimiamo la nostra identità e la nostra stessa presenza sociale. La sfida, dunque, non deve essere quella di come usare bene la Rete, come spesso si crede, ma come vivere bene al tempo della Rete. Finché si manterrà il dualismo on/off si moltiplicheranno le alienazioni.
Finché si dirà che bisogna uscire dalla relazioni in Rete per vivere relazioni reali si confermerà la schizofrenia di una generazione che vive l’ambiente digitale come un ambiente puramente ludico in cui si mette in gioco un secondo sé, un'identità doppia che vive di banalità effimere, come in una bolla priva di realismo fisico, di contatto reale con il mondo e con gli altri. La sfida non è solamente etica ma anche profondamente spirituale. Il vero nucleo problematico della questione che stiamo affrontando è dato dal fatto che l’esistenza virtuale appare configurarsi con uno statuto ontologico incerto: prescinde dalla presenza fisica, ma offre una forma, a volte anche vivida, di presenza sociale. Essa, certo, non è un semplice prodotto della coscienza, un’immagine della mente, ma non è neanche una realtà oggettiva ordinaria, anche perché esiste solo nell’accadere dell’interazione. Si apre davanti a noi un mondo ibrido, che interroga il significato della presenza, la cui ontologia andrebbe indagata meglio. Vivere le dinamiche delle reti sociali non significa giocare, ma vivere la realtà della propria vita. O almeno questo deve essere l’obiettivo: essere se stessi. Benedetto XVI nel suo messaggio per la XLV Giornata delle comunicazioni ha giustamente ricordato che «le dinamiche proprie dei social network mostrano che una persona è sempre coinvolta in ciò che comunica. Quando le persone si scambiano informazioni, stanno già condividendo se stesse, la loro visione del mondo, le loro speranze, i loro ideali». In quel messaggio il Papa ha chiaramente oltrepassato il dualismo. A questo punto i paradigmi concettuali della realtà virtuale si percepiscono in tutta la loro fragilità. In che modo possiamo definire questa realtà complessa in cui si giocano più livelli di esistenza? Nathan Jurgenson propone il paradigma della realtà aumentata. È valido questo paradigma? Il cuore della questione consiste nel fatto che una rigida distinzione duale tra naturale e artificiale, mente e corpo, res cogitans e res extensa non rende più ragione della realtà complessa che viviamo. Ed è interessante che il riferimento teorico di Jurgenson sia Donna Haraway e il suo Cyborg Manifesto. La Haraway, pur avendo perso la fede, riconduce le basi della sua teoria dall’educazione cattolica ricevuta, affermando: «Il simbolismo e il sacramentalismo cattolici, le dottrine dell’incarnazione e della transustanziazione hanno profondamente influenzato la mia formazione». Mi vado convincendo – e ho provato a dimostrarlo nel mio libro Cyberteologia. Pensare il cristianesimo al tempo della Rete – che per parlare di internet e della realtà al tempo della Rete non si può che usare un linguaggio teologico.
Chiaramente il sacramento è un segno visibile ed efficiace della grazia: non genera solamente informazione. Ma l’intuizione della Haraway, sebbene opinabile e problematica nei suoi esiti, parte dall’intuizione giusta: è il concetto di sacramento che può davvero aiutarci a capire la realtà al tempo dei media digitali. Soprattutto perché non ammette dualismi. La profetica complessità di Teilhard de Chardin aveva intuito il necessario crollo del dualismo, ad esempio, in un passaggio per certi versi sconcertante de L’energia umana quando afferma: «Ogni passo avanti realizzato dall’Uomo nella meccanizzazione del Mondo travalica il piano della Materia. Si aggiunge infatti alle nuove possibilità che nascono dai perfezionamenti arrecati alla materia organizzata per determinare nell’individuo un accrescimento dell’energia spirituale».