Passeggiare a braccetto chiacchierando con Luigi Geninazzi è un po’ come passeggiare nella storia. Perché lui - inviato speciale di Avvenire da un quarto di secolo - a braccetto (o quasi) ha passeggiato con i «grandi», quelli di cui già parlano i libri di scuola. Si è trovato faccia a faccia con i protagonisti nel bene e nel male di rivoluzioni e dittature, di guerre e paci, di muri che venivano eretti e di altri che finalmente crollavano. Lui c’era sempre, nei luoghi giusti e nell’istante in cui la storia, quella con la esse maiuscola, accadeva. Per questo a Lerici, nella serata clou della 37ª Festa di Avvenire, sulla Rotonda in riva al mare ha ricevuto il prestigioso Premio giornalistico Angelo Narducci, dedicato allo storico direttore del nostro quotidiano. E, intervistato da Rosario Carello, conduttore del programma di RaiUno «A Sua immagine», ha preso lui a braccetto la gente di Lerici per condurla con sé a incontrare un papa Wojtyla «amabile e gentilissimo, che nel 1983 per tre giorni a Castel Gandolfo ha dialogato con me in giardino, chiedendomi - lui a me, capite? - che cosa ne pensassi della situazione polacca. Io ero un novellino, il più modesto dei giornalisti, e il Papa voleva conoscere la mia opinione. Non aspettava che lo si andasse a cercare, era lui a venirti incontro». O un Lech Walesa che, sempre negli anni Ottanta, dopo i giorni gloriosi di Solidarnosc «era tornato a fare l’operaio ai cantieri di Danzica. L’ho aspettato fuori dai cancelli, è uscito con gli altri operai, con la tuta da elettricista. È questa la gente che fa le vere rivoluzioni». O un Havel ancora dissidente nella Cecoslovacchia comunista, «sorvegliato dai poliziotti in una baita. Mi ha visto lui ed è riuscito a uscire per l’intervista. L’ho rivisto poi nel 1990 quando, caduto il regime, era diventato presidente della Repubblica. Un non credente che mi diceva: io non so cos’è un miracolo, ma capisco che ciò che ora sta avvenendo lo è». O ancora una madre Teresa di Calcutta («Con lei e con papa Wojtyla ho conosciuto una santa e un beato »), che Geninazzi ha incontrato in Albania il giorno della caduta del dittatore Enver Hoxha: «Seppi che era arrivata e cercai di intervistarla, ma una suora mi rispose che era assolutamente impossibile per chiunque. In quel momento lei uscì, mi strinse forte una mano e si sedette di fronte a me dicendo, 'parliamo pure'. Vedeva lontano, già aveva in mente un mondo che si apriva al futuro e un grande spazio per la Chiesa... Lì ho toccato la santità». E via così, dimostrando che «fare l’inviato speciale è il più bel mestiere del mondo», e lui lo ha fatto per davvero. Ha visto da dentro tutte le guerre dei nostri tempi, dalle rivoluzioni dell’Est Europa negli anni ’80 alla Jugoslavia, dall’Afganistan dopo l’11 Settembre all’Intifada del 2002, dal conflitto iracheno nel 2003 a quello nel Libano del 2006, fino alla Primavera Araba dell’anno scorso... Il tutto con l’occhio di chi sa «leggere» i fatti: «Il 25 gennaio 2011 nella Piazza Tahrir ho visto qualcosa cui non avevo mai assistito in un Paese arabo, e cioè milioni di giovani scesi in strada non per gridare slogan contro l’Occidente, non per bruciare bandiere degli Usa o di Israele, ma per chiedere libertà e verità ai loro stessi politici. Volevano rovesciare il regime di Mubarak e si erano riuniti su Facebook. Però perché una rivoluzione riesca c’è bisogno di una natura etica, io chiedevo chi fosse il loro leader, dove fosse il loro Walesa, ma non c’era. Infatti oggi quei ragazzi sono spariti e la loro piazza è stata presa dai Fratelli Musulmani...».
Un inviato davvero speciale, a volte, nella storia fa anche qualche incursione personale. Come quando, a pranzo con Arafat sotto l’occhio di un kalashnikov, Geninazzi ha introdotto il concetto di perdono, l’unica strada - reciproca - per porre fine a millenni di massacri tra israeliani e palestinesi. «Si arrabbiò molto. Ormai, dopo tante esperienze, mi sono convinto che il perdono è solo cristiano, totalmente incomprensibile a tutte le altre realtà».
«Non è mai stato un temerario, ma quante volte ho tremato per lui...», ha raccontato il direttore di Avvenire, Marco Tarquinio, nel consegnargli il premio. «Gez, come lo chiamiamo al giornale, è l’immagine vera del giornalismo serio, un testimone che questo giornalismo è ancora possibile. Molte delle sue pagine resteranno nel tempo, documenti memorabili».
Lucia Bellaspiga