UFFICIO NAZIONALE PER LE COMUNICAZIONI SOCIALI
DELLA CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA

Raccontare la guerra, con gli occhi delle vittime

Prosegue, con l’intervento di Daniele Rocchi, giornalista del Sir esperto di Medio Oriente, la riflessione a più voci promossa dal Copercom sul tema della responsabilità della comunicazione, anche cattolica, dinanzi all’offensiva del terrorismo e allo stato di guerra incombente in Europa.
22 Dicembre 2015

Prosegue, con l’intervento di Daniele Rocchi, giornalista del Sir esperto di Medio Oriente, la riflessione a più voci promossa dal Copercom sul tema della responsabilità della comunicazione, anche cattolica, dinanzi all’offensiva del terrorismo e allo stato di guerra incombente in Europa.

Con gli occhi delle vittime: bambini, rifugiati, perseguitati    

Daniele Rocchi
Giornalista del Sir, esperto di questioni mediorientali e in particolare della Terra Santa

Ahmed ama correre. Farlo lo rende felice perché lo distoglie dai cumuli di macerie e distruzione che lo circondano praticamente da quando è nato. Corre ogni volta che può, con tutta la freschezza dei suoi 15 anni, quasi sempre di mattina presto. Mentre il sole albeggia. Sempre nello stesso luogo: il lungomare di Gaza, non molto distante dal porto. Corre, saltando pozzanghere nerastre e buche che sembrano crateri. Quello di Gaza non è certo il lungomare di Tel Aviv che dice di non aver mai visto. Lui che da quando è nato non ha mai messo un piede fuori della Striscia. Di Israele, che sta lì, oltre quel muro di cemento che non ti fa vedere nulla, conosce solo le divise dei militari, il rombo degli aerei, il sibilo dei loro missili - diverso dallo scoppio dei razzi palestinesi, dice ridendo -, il suono sordo dei mitra e il rumore metallico dei cingolati con la Stella di David. I suoi piccoli occhi neri non hanno visto altro che questo. Te lo dice in un inglese discreto, studiato a scuola, che frequenta con una certa passione cullando il sogno di diventare un bravo ingegnere per ricostruire case e palazzi. Ma l’università è difficile e bisogna lavorare molto. Chissà… Di tanto in tanto si passa la mano sulla fronte sudata, asciugandosela poi sulla tuta sdrucita. Si guarda le scarpe infangate. I sogni a Gaza durano poco, non ti portano molto lontano. Nemmeno se chiudi gli occhi e ti addormenti. Basta un proiettile, un razzo o un missile per svegliarti bruscamente e riportarti alla realtà. Questa è la guerra di Ahmed, che corre per sfuggire alla violenza e inseguire il traguardo di un futuro diverso, migliore. Sono i suoi occhi a raccontartela, più di tante parole di esperti e analisti.
 
C’è da restare obiettivi, equidistanti, e riferire anche degli occhi impauriti dei bambini israeliani di Sderot e di altre città come Be’er Sheva, vittime anch’essi dell’odio umano spesso cresciuto e coltivato in famiglia e nei banchi di scuola. Raccontare la guerra con gli occhi delle vittime non significa tacere l’orrore del sangue. I racconti dei rifugiati iracheni sfuggiti alla mattanza di Daesh, del cosiddetto Stato islamico, lasciano il segno. Sono una denuncia altrettanto forte di quanto sta accadendo in Siria e in Iraq, dello spargimento di sangue che non risparmia nessuno. Non sorride più Heba Khalil Wadee, 25 anni, di Qaraqosh, un tempo direttrice di asilo, oggi rifugiata in Giordania, in attesa di emigrare all’estero. Pensa ai suoi 35 alunni di cui non ha più notizie. Per lei la parola futuro fa rima con emigrazione. La sua unica colpa è di essere cristiana e di essersi rifiutata di abbracciare l’Islam. Ricordo ancora gli occhi del piccolo Daniel, 10 anni, della Piana di Ninive, che sogna di tornare nel suo villaggio per riprendersi i giochi che ha dovuto in tutta fretta abbandonare. Intanto studia matematica, la sua materia preferita, su un banco rimediato in un campo di rifugiati.
 
Raccontare la guerra anche con le testimonianze di chi questa guerra la combatte in prima linea con le armi - in apparenza spuntate - della riconciliazione e del dialogo. Come fanno i tanti volontari, religiosi e religiose, sacerdoti e vescovi che riempiono le fila di un esercito senza divisa con truppe disseminate nei luoghi più lontani e pericolosi alla ricerca di gente da aiutare. Medici come Emil Katti, chirurgo all’ospedale "Al-Rajaa" di Aleppo, che racconta la sua “guerra” per la vita nella città martire siriana, dove mancano luce e acqua. “Curiamo tutti indistintamente, non chiediamo se sono civili o militari, se cristiani o musulmani. L’obiettivo è salvare la loro vita”. Al medico non difetta la speranza, “in fondo io lavoro nell’ospedale Al-Rajaa che significa proprio speranza”. La fiducia e la speranza vengono non solo dalla fede, il medico è cristiano, ma anche dai suoi colleghi, “il 95% dei quali è musulmano. Siamo una grande famiglia - dice con orgoglio -, la religione non ci divide ma ci unisce. Solo così possiamo trasformare il male in bene”. Le guerre in Siria, in Iraq, in Libia, in Terra Santa… hanno anche questi protagonisti le cui gesta devono essere raccontate perché sono “notizia”. Farlo è anche rispettare un principio di responsabilità: la professione come servizio alla società. Raccogliere voci, testimonianze dettagliate e raccontarle in modo corretto è operare per il bene della società, soprattutto quando ci si trova a vivere nella paura di attentati, come in questi tempi. È anche raccontando la guerra che si lavora per la pace, perché fintanto che non conosceremo la guerra nei suoi drammi più profondi, continueremo a dare per scontata la pace. 

Leggilo dal sito del Copercom