Il Boss che non t’aspetti. Dopo cinque anni di sostanziale silenzio, all’alba dei settant’anni, l’eterno Bruce torna con un disco per molti versi spiazzante: 13 nuove canzoni ispirate al grande pop statunitense (californiano soprattutto) dei tardi anni Sessanta e primi Settanta.
Uno Springsteen insolitamente melodico – più vicino a Bacharach che a Dylan, per intenderci – anche se l’imprinting conserva gran parte di ciò lo ha sempre caratterizzato: l’inconfondibile voce ovviamente, ma anche il gusto di raccontare storie di perdenti e disillusi, con l’enfasi epica delle sue ballate migliori. È il vestito che cambia, sorprendendo i vecchi fans, ma senza rinnegare l’essenza che da sempre li lega al loro eroe in una relazione che tuttora conferma una solidità e un’affinità sentimentale unica nel music-business odierno.
Le nuove canzoni hanno un aroma vintage che richiama ora il western swing ora il pop orchestrale à la Bacharach appunto, ora Harry Nilsson e Billy Joel, ora Roy Orbison.
Quanto alla galleria di personaggi che popolano i testi c’è di tutto: vecchi attori e autostoppisti, camionisti, baristi… Li accomuna un’amarezza esistenziale che è poi quella di tanta America trumpista, figlia di un’opulenza andata a male o marinata nella solitudine del cuore. Testi potenti e pervasi da una tragicità esistenziale che è figlia di un vuoto (valoriale, soprattutto) che niente e nessuno sembrerebbe più riuscire a colmare.
Un altro piccolo capolavoro, anomalo e inaspettato, ma anche per questo forse ancor più fascinoso.
Franz Coriasco