Carlo Fava è un ottimo cantautore. Di quelli cresciuti ascoltando i grandi e rinnovandone la tradizione poetica. Il suo nuovo lavoro si apre con un brano, La legge della lode che a tratti ricorda De Andrè, ma con un tocco di jazz in più. Ma l’approccio complessivo rimanda soprattutto a certe formule del teatro-canzone rese imprescindibili da gente come Giorgio Gaber e Paolo Conte.
Carlo Fava è nato a Milano nel 1965; non è più un ragazzino dunque, ma nel music-business ci ha sempre galleggiato a fatica. Nel 1998 ha avuto l’onore in vedere un proprio brano nell’ugola di Mina, ha collaborato con Jannacci, ha pubblicato un album di cover in omaggio al Quartetto Cetra, nel 2006 è finito anche a Sanremo vincendo il Premio della Critica. Ma in oltre vent’anni di carriera ha dato alle stampe la miseria di cinque album.
Quest’ultimo, fresco di stampa è addirittura un doppio cd. Il primo, quello che dà il titolo all’opera è composto da una dozzina di frammenti in perfetto stile cantautorale classico: il piano a guidare le danze, umori jazz a far capolino e a regalare suggestioni molto raffinate, ballate essenziali nutrite da una poetica sempre efficace. L’altro, intitolato Selfie, aggiunge altri quattro brani altrettanto belli e profondi nella loro elegante leggerezza, ma con un tocco d’ironia che svela anche la vena socio-politica del suo stile.
Franz Coriasco