La vita quotidiana. Quella che sfianca e preoccupa, ma anche quella che ci scodella in casa tonnellate d’inquietudine mediatica: guerre e recrudescenze razziste, violenze d’ogni genere, emergenze climatiche. Un po’ di tutto ciò tracima dal ritorno di una della band più significative del Terzo Millennio.
Un tempo si sarebbe detto che questo è un album impegnato. E per certi versi l’etichetta può essere ancora buona per catalogare un’opera pervasa di umanesimo, di riferimenti al sociale, di j-accuse ai guasti e alle derive politiche e valoriali di questo presente.
C’è però in questo nuovo lavoro di Chris Martin e soci anche una forte tensione spirituale, che unita agli ingredienti succitati porta i nuovi Colplay non troppo lontani dagli approdi degli U2 degli anni belli, piuttosto che sugli scenari convenzionali del brit-pop di tendenza. Un album austero, pieno d’idee fors’anche più ambiziose del lecito, ma in qualche modo sincero e stuzzicante.
Nel primo dei due cd – denominato Sunrise come lo strumentale d’apertura - spiccano brani come Church che è una sorta di preghiera intimista dove Chris ricorda davvero Bono, ma anche BrokEn, suadente immersione nel tradizionalismo gospel, e la ballatona sussurrosa Daddy, il melting pop della sgiazzante Arabesque e la corale When I need a friend. Nel secondo – denominato specularmente Sunset – ecco la dylaneggiante Gun, e poi Cry Cry Cry coi suoi riferimenti al buddismo, le struggenti speranze di Champion of the world, i richiami all’Africa e al mondo arabo, in un melting pop più pan religioso che sincretista. A chiudere tutto ci pensa la title-track, un invito alla ricerca di una felicità minimale, ma proprio per questo più abbordabile.
Un disco con un notevole peso specifico: troppo ricercato e stilisticamente dispersivo per i detrattori, finalmente pregnante per chi chiede alla musica lo spessore e la densità che così spesso manca al mondo reale. Il qui presente opta per la seconda ipotesi.
Franz Coriasco