E’ una vita che De Gregori flirta col repertorio dylaniano: ci ha strizzato l’occhio, ne ha più volte richiamato le poetiche ed echeggiato le sonorità, tuttora gigioneggia con la voce usando gli stessi trucchi dello stagionato menestrello del Minnesota. Anzi al di là del fatto che ogni cantautore – anche i più grandi – hanno i propri maestri di riferimento, nel suo caso si può ben dire che la sua dylanità costituisca tutt’ora non solo uno dei tratti peculiari del suo stile e la sua primaria fonte d’ispirazione, ma fors’anche una delle turbine del suo pluridecennale successo.
Stavolta però il gioco è dichiarato e assai più palese di quanto non fosse accaduto in passato. In questo Amore e Furto il vate di Monteverde gioca allo scoperto, omaggiando il Maestro senza ricorrere al citazionismo mascherato. E tuttavia in queste riletture ci mette davvero tanto di suo, in un lavoro di traduzione che – giocoforza, quando si tratta di canzoni – ha necessitato un’estenuante e certosinico lavoro d’adattamento e talvolta di ricostruzione.
N’è uscito un lavoro rispettoso e, insieme, profondamente personale; un appassionato atto di devozione, un tributo deferente, e - faticacce metriche a parte - anche un divertissement, per chi l’ha fatto e chi ne fruisce; perfino – suppongo – per i dylaniani più intransigenti. Un gran bel disco insomma, che certo ha più il sapore d’un atto d’amore che di un furto con destrezza. E se da un lato queste canzoni spezzano la routine discografica del cantautore romano, dall’altro ne ribadiscono la creatività e l’ancor splendente ispirazione. (Franz Coriasco)