Guido Elmi ne ha viste tante, e altrettante ne ha apparecchiate, come produttore storico di un signore chiamato Vasco Rossi.
Adesso ha deciso di scendere in campo in prima persona proponendosi come cantante e compositore, e l’ha fatto con un pugno di canzoni ombrose, spesso dal taglio fortemente autobiografico, sincere.
Il ruvido Guido non è un cantautore nel senso classico del termine, ma ne ha evidentemente l’indole e ne ha assimilato le poetiche, sicché il disco si lascia ascoltare regalando un bel po’ di suggestioni. Dopo oltre tre decenni passati a smanopolare sul mixer e a faticare dietro le quinte ha finalmente realizzato un suo vecchio sogno, provando l’ebbrezza della ribalta: “Ho raccontato i miei amori, le mie passioni e i miei fallimenti – ha dichiarato di recente. Forse con questo album sono riuscito a tirar fuori quello che sono sotto la pelle”. Qua e là echi dylaniani, ma anche di Nick Cave e Serge Gainsbourg, il chitarrismo elettrico del Lou Reed più cartavetrato e il decadentismo cool di Brian Ferry, riferimenti colti che spaziano da Baudelaire a Nietzsche. Con queste premesse e il possente curriculum alle spalle, i solchi distillano ruvide carezze, colme di rimpianti crepuscolari e del disincanto di un animo romantico e malinconico. Come tutti quelli che han perfetta coscienza d’aver “scollinato” da tempo, Elmi ha l’urgenza di raccontarsi e di tirar le fila; guardandosi dentro più che d’intorno.
(Franz Coriasco)