Ha appena compiuto ottant’anni. Come la Loren e la Bardot, come Paoli e la Vanoni: un traguardo che un tempo aveva il sapore del definitivo, ma che nell’era degli smartphones sembra solo un passaggio verso nuovi obiettivi (perfino per i nonnetti comuni, così spesso alle prese con figli da mantenere e nipotini da accudire…).
Cohen, forse il più grande poeta mai espresso dalla sub-cultura rock, ha appena pubblicato un nuovo, splendido disco: Popular problems, il suo tredicesimo album d’inediti, realizzato in stretta collaborazione col figlio Patrick.
Le nuove canzoni tracimano gospel e ballate folk-blues, teologia e filosofia, doppi sensi erotici e metafore fulminanti. Atmosfere ancora una volta giocate sulla consueta alternanza di tenebrosità metropolitane e dolcezze celestiali, srotolate in quei suoi inconfondibili “andamenti lenti” che da più di mezzo secolo sono uno dei tratti indelebili del suo inimitabile “intellectual-pop”.
Il risultato è una pozione d’ambrosia e catrame, assolutamente ammaliante. L’instancabile Cohen passa con non-chalance dalle bibliche piaghe d’Egitto all’uragano Katrina, dai fantasmi della guerra civile americana ad amori senza tempo; istantanee sociologiche e j’accuse all’arsenico che tuttavia sottintendono un’ansia di redenzione che ha evidenti tratti autobiografici ma anche i crismi dell’universalità: l’ennesimo capolavoro di un grande vecchio che ancora non ha smesso di cercare se stesso e un sempre più profondo senso del vivere. Se non ci fosse, toccherebbe inventarlo: ma nessuno tranne lui, saprebbe come fare.
(Franz Coriasco)