Cohen, o dell’oscurità. A ottantadue anni suonati, il grande vecchio della poetica rock (eccone un altro per il quale un Nobel non sarebbe stato affatto pretestuoso) non sbaglia un colpo e continua ad ammaliare il mondo: con la sua voce tenebrosa e suadente, con le sue ballads così straordinariamente suggestive, con quel suo modo straordinario di dar spessore, nobiltà, e anima ai travagli del presente e del nostro intimo.
Assecondato con affetto e maestria dal figlio Adam – produttore anche di questo suo quattordicesimo album in studio – Cohen ha di nuovo centrato il bersaglio: restando invariabilmente uguale a quello che è sempre stato e a tutto ciò che ha sempre rappresentato, eppure aggiungendo ancora nuove suggestioni e nuovi fremiti a una carriera che ormai è lunga mezzo secolo.
Al solito, il lavoro è pervaso da una palpabile tensione mistica e religiosa (nella splendida canzone che apre e dà il titolo all’album è ospitata anche la corale di una sinagoga), ma inabissandosi spesso anche nelle inquietudini del suo cuore: l’avvicinarsi del proprio epilogo esistenziale ovviamente, ma anche l’amore (da quello corrotto dall’egoismo a quello più puro, eternizzato dalle passioni più durevoli), dalla serenità insita in certe solitudini, al senso della vita per un anziano.
Un altro capolavoro, del quale ben pochi in realtà dubitavano, ma che pure continua a sorprendere e ad incantare ad ogni nuovo ascolto.
Franz Coriasco