UFFICIO NAZIONALE PER LE COMUNICAZIONI SOCIALI
DELLA CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA

ROLLING STONES: “Blue & Lonesome” (Promotone – Universal)

Le mitiche Pietre Rotolanti mancavano all’appello discografico dal 2005. Ci tornano oggi con un disco inciso in soli tre giorni, praticamente in presa diretta, a due passi dalla strada londinese dove mossero i loro primi passi; un album che sancisce un chiarissimo ritorno alle origini blues che segnarono l’inizio della loro carriera, all’alba degli anni […]
5 Dicembre 2016

Le mitiche Pietre Rotolanti mancavano all’appello discografico dal 2005. Ci tornano oggi con un disco inciso in soli tre giorni, praticamente in presa diretta, a due passi dalla strada londinese dove mossero i loro primi passi; un album che sancisce un chiarissimo ritorno alle origini blues che segnarono l’inizio della loro carriera, all’alba degli anni Sessanta.

L’istituzione più longeva, iconica, e leggendaria del cosiddetto “spirito rock” continua dunque a riconcorrere il mito dell’eterna giovinezza e lo fa con una manciata di canzoni che sembrano saltar fuori da una vecchia radio a transistor. Ma la linguaccia ha cambiato colore  - dal rosso al blu – a sottolineare il titolo e l’essenza stessa di album tutto compresso nella dolenza tipica del blues (“la fonte di tutto” dicono loro), sul quale oggi come più di mezzo secolo fa, ancora s’innestano tutta l’energia e l’estroversione del rock.

Un disco sporco e cattivo, ma certo tutt’altro che brutto. Anzi, pieno di vitalità contagiosa, tanto più sorprendente se si considera l’età di Jagger e soci, tutti ben sopra la settantina. Intelligentemente han deciso di lasciar perdere i vezzi autografi per buttarsi a capofitto tra i classici immortali di quest’ambito, riesumando e rispolverando a dovere una manciata di capolavori degli anni ’50/’60, firmati da mammasantissima del calibro di Howling Wolf e Willie Dixon. A ingolosire gli aficionados anche la chitarra di Eric Clapton e la produzione essenziale di un vecchio marpione come Don Was.

I quattro vegliardi miliardari sono ancora in gran forma e con i loro pedigree possono certo permettersi di girar le spalle alle grandeur strepitanti degli stadi per ritrovarsi nell’intimità fumosa di un piccolo club: là dove la musica della sofferenza di generazioni di afroamericani diventa, per i bianchi che sanno maneggiarla, orgogliosa e talvolta vanitosa rivendicazione di sé. Ma chissà che proprio grazie a dischi come questo, anche i Millenials odierni possano spingersi oltre, sulle tracce degli inestimabili originali.

(Franz Coriasco)