UFFICIO NAZIONALE PER LE COMUNICAZIONI SOCIALI
DELLA CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA

Senso critico contro un'informazione malata

La ricerca del sensazionale a tutti i costi nei mezzi di comunicazione sta diventando una malattia sociale, da cui può salvarci solo una adeguata capacità critica. Avvenire presenta l’analisi del filosofo tedesco Christoph Türcke, autore del "La società eccitata. Filosofia della sensazione" (Bollati Boringhieri). 
 
11 Aprile 2012
Era una battuta, piuttosto lu­gubre, ma allora - erano gli anni Sessanta - circolava co­me un titolo di merito. «'Bild' è stato il primo a parlare con il ca­davere » era il vanto. E si diceva che i cronisti del vendutissimo ta­bloid tedesco (oggi 5 milioni di copie al giorno) andassero a noz­ze con i fatti di nera più truci, gli scandali e i disastri naturali: noti­zie succulente su cui piombavano con strabiliante puntualità e che poi sapevano montare ad arte.
Certo quelli del 'Bild' forse esage­ravano ma in fatto di notizie sen­sazionali non avevano inventato nulla. Raccontare per primi, stril­lare o incantare il prossimo con u­na mostruosità fanno parte di un savoir faire vecchio quanto il mondo. Certo è che negli ultimi cinquant’anni proprio quest’arte si è perversamente raffinata. Il mondo della comunicazione è di­ventato un arsenale di cronache da sparare ad alta pressione, noti­zie attinte là dove lo shock, il re­cord, il limite, il dolore, le lacrime, le bestemmie, lo strazio della morte o la distruzione sono così acuti e penetranti da diventare un’iniezione multisensoriale.
L’informazione e in genere la co­municazione hanno rovesciato la logica delle notizie: dal comuni­care qualcosa perché importante – perché riguarda tutti – si è ap­prodati alla fabbrica delle noti­zie che attinge a ciò che può attrarre l’atten­zione, diventare spettacolare o sconvolgente. Sen­sazionale. Tanto che persino l’ori­ginale significato fisiologico di sensazione, cioè percezione co­mune, è scivolato in ciò che in modo magnetico attrae su di sé la percezione. E cioè proprio il sen­sazionale, lo spettacolare che da caso limite diventa la norma. Sia­mo in una società eccitabile ed eccitata, per dirla con Christoph Türcke, professore di filosofia all’Accademia di Arti visive di Li­psia che al tema ha dedicato un’imponente analisi pubblicata da Bollati Boringhieri ( La società eccitata. Filosofia della sensazione, pagine 352, 43 euro). La volontà di impressionare a tutti i costi con stimoli progressivamente più pe­netranti non è solo una deriva dell’informazione, della pubbli­cità o dell’industria culturale; in tutte le forme delle relazioni quo­tidiane, dove il risvolto mediatico è onnipresente, c’è la consapevo­lezza che chi non attrae su di sé l’attenzione altrui, chi è ignorato, è destinato a non esistere. Nella società tecnologica avanzata del­­l’essere è essere percepiti – in cui a ciascuno si impone di essere un ricetrasmittente e persino – «esserci» diventa un incubo, una lotta per l’attenzione, dove il ci è quel un vortice di forza vitale col­lettiva che non tollera l’inattività, la non trasmissione, cioè il vuoto.
Il grigiore di una vita di basso pro­filo e sottovoce. Ed ecco l’esisten­za trasformarsi in una coazione frenetica al fare, a essere in onda, sollecitati da stimoli sempre più forti e a propria volta stimolanti.
Niente di nuovo sotto il sole. Nel rivoluzionamento ipertecnologi­co – ritiene Türcke – non si posso­no non vedere i segni di una re­gressione all’arcaico. A quel mon­do preisto­rico in cui i primi uo­mini reagi­vano al ter­rore degli animali fe­roci con i graffiti, una sorta di coazione a ripeterne l’immagi­ne. Un meccani­smo simile a quello che molto più tardi Freud associò alla nevrosi da trauma. Immortalati sulle pareti delle caverne, quelle fiere diventa­vano una presenza costante e controllabile. Del resto quei bom­bardamenti di stimoli violenti, quale doveva essere la vita prei­storica, temprarono la corteccia cerebrale dell’homo sapiens, ren­dendo quell’amalgama di cellule nervose grigie, sede delle presta­zioni mentali, uno scudo di prote­zione al cervello. Il primo aneste­tico dei sensi della storia umana.
Esattamente ciò che succede, se­condo il filosofo tedesco, in una modernità in cui irrequietezza e fermento si ingorgano al punto che la percezione, sotto la pres­sione di stimoli sempre più forti, vive stati prolungati di assuefazio­ne. E, come per le droghe, neces­sita di stimoli sempre più scioc­canti per tener desta la soglia di eccitabilità. Peccato che il con­traccolpo sulle sensibilità, le iden­tità e le esperienze personali sia devastante. «Ciascuno irradia qualcosa – spiega Türcke – ben­ché i rumori del suo corpo siano così lievi, il suo respiro così flebile, il suo atteggiamento, la sua ge­stualità, la sua mimica così inap­pariscenti da risultare quasi im­percettibili ». Cosicché mentre nel gran bailamme le esperienze si­gnificative e autentiche si perdo­no o non arrivano al livello di per­cezione generale, più banalmente si fanno strada forme di ribellione sociali (dai tatuaggi al piercing al­le tossicodipendenze fino alle av­venture estreme della violenza e dell’odio senza movente) che hanno il sapore della rivolta all’in­differenza e all’assuefazione sen­sitiva. Consapevole che non si possa semplicemente invocare l’astinenza contro il diluvio au­diovisivo, ormai inarrestabile, Türcke suggerisce la manovra al­ternativa: vaccinarsi con un do­saggio sapiente di capacità critica che agisca da freno. La consape­volezza, anche se in dosi omeopa­tiche, è un veleno che permette al flusso del mondo liquido di fronteggiarlo e di non esserne travolti.