UFFICIO NAZIONALE PER LE COMUNICAZIONI SOCIALI
DELLA CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA

Sì alla tecnologia a scuola, no ai prof-robot!

"Se tutta l’attenzione è puntata sugli strumenti e non sulle persone, ciò che si rischia di mettere a repentaglio è l’elemento essenziale del fare scuola, cioè la relazione educativa tra docente e discente". Lo afferma, in una riflessione per Avvenire, Roberto Carnero. Cultura e passione educativa rimangono i requisiti più importanti.
4 Febbraio 2013
Le nuove tecnologie (computer, tablet, smartphone...) rischierebbero di soffocare negli studenti la capacità di approfondimento, lo spirito critico, l’abilità a strutturare ragionamenti complessi. Quando si parla di scuola e new media, c’è da tener conto anche di queste motivate riflessioni e analisi critiche e non solo delle valutazioni entusiastiche, tese a mostrare le 'magnifiche sorti e progressive' dei nuovi strumenti che, se applicati alla didattica (dai libri di testo elettronici alle lavagne interattive multimediali), giungerebbero, come un raggio di sole in una stanza buia, a svecchiare un insegnamento ancora ottocentesco. Che la direzione del cambiamento sia di tipo tecnologico è certo. Si tratta di un mutamento inevitabile e per molti versi positivo. Ogni strumento che incontri il favore dei ragazzi, oggi tutti 'nativi digitali', può servire a integrare e – perché no? – a migliorare l’insegnamento tradizionale. È bene però che l’amore del nuovo e per il nuovo non conduca, quando si parla di queste cose, a trascurare di evidenziare anche i limiti e gli 'effetti collaterali' di un’accelerazione tecnologica troppo spinta. Se tutta l’attenzione è puntata sugli strumenti e non sulle persone, ciò che si rischia di mettere a repentaglio è l’elemento essenziale del fare scuola, cioè la relazione educativa tra docente e discente. Tale processo di 'spersonalizzazione' dell’insegnamento è molto evidente, all’università, nei cosiddetti 'campus telematici', che in Italia sono una dozzina e contano attualmente 42mila iscritti (con un aumento del 200% rispetto a 3 anni fa). Veri atenei, che rilasciano titoli di laurea validi a tutti gli effetti, in cui gli alunni studiano da casa, al proprio computer, dal quale seguono lezioni pre-registrate da professori lontani magari centinaia di chilometri. Ovviamente, c’è del buono in tutto ciò: ad esempio la possibilità per gli studenti-lavoratori di seguire i corsi quando sia loro comodo, conciliando più facilmente i tempi dello studio con quelli del lavoro. Certo è, però, che così assistiamo al totale ribaltamento del modello universitario nato nel Basso Medioevo (e proseguito sino ad oggi), quando gli studenti, i clerici vagantes, migravano da un’università all’altra, in tutta Europa, per seguire i migliori maestri sulla piazza: ora, invece, sono i maestri a entrare nelle case degli studenti tramite lo schermo di un pc. Il problema è che questa impostazione iper­tecnologica si sta diffondendo sempre più anche nella scuola e rischia di impoverire quella relazione umana tra chi insegna e chi impara che è parte fondamentale del processo di apprendimento. Prendiamo le 'piattaforme didattiche', grazie alle quali gli studenti svolgono esercizi nelle varie materie tramite computer, in modalità, come si dice, 'autocorrettiva'.
La piattaforma ti dice se la tua risposta a un certo quesito è corretta o errata, in quest’ultimo caso ti indica l’alternativa giusta, ma non ti spiega il perché. C’è poi un altro rischio: che insegnanti ideali del futuro siano ritenuti i più preparati nell’utilizzare le tecnologie. Pensare una cosa simile sarebbe riduttivo se non fuorviante: chiaramente vogliamo docenti aggiornati, capaci di parlare lo stesso linguaggio dei loro alunni per farsi da loro capire, ma non possiamo dimenticare che il requisito di un buon insegnante è, innanzitutto, la preparazione nella propria disciplina, unita alla passione nel trasmetterla.
Tutto il resto viene dopo, ed è, caso mai, conseguenza di questa condizione di partenza. Insomma, non vorremmo che le nostre scuole finissero con l’assomigliare a quel ristorante giapponese del quale un quotidiano qualche giorno fa proponeva una fotografia certamente curiosa ma pure un po’ inquietante: al posto dei camerieri, robot che stanno in carica due ore e possono lavorare per altre cinque e che – commentava giulivo l’articolista – sono anche capaci di dieci espressioni facciali diverse! Ci piacerebbe che, almeno nelle nostre scuole, i rapporti tra maestri e allievi continuassero a essere un po’ più genuini.