Le notizie di cronaca di questi giorni ripropongono, ancora una volta, le modalità d’uso dei social network. La questione, certo, apre a una serie d’interrogativi: e l’auto-espressività? Perché comprimere la libertà in schemi prefissati? Il punto nodale, però, sta nella necessità di un’opera da recuperare - l’educazione - per una progettualità che non va più lasciata all'improvvisazione.
Ben venga, quindi, l’impegno delle nostre Chiese locali - come riportato dall'ultimo “Portaparola” di Avvenire (22 ottobre) - per una comprensione attenta e profonda di linguaggi che magari non sono i nostri e, forse, non lo saranno mai. La formazione a qualcosa che non si conosce non coincide con la ricerca e l’utilizzo di nuovi codici interpretativi o di espressioni linguistiche più in voga. Non è l’applicazione di hashtag particolari per entrare nei trend topic delle vite altrui. Non è neppure una semplice operazione culturale. Si tratta, invece, di una scelta di campo che presuppone il raccordo tra il comunicare, il pensare e il vivere ciò che si comunica.
Vincenzo