UFFICIO NAZIONALE PER LE COMUNICAZIONI SOCIALI
DELLA CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA

Tablet a scuola? Andateci piano

Il libro, la scuola e l’iPad. Tre temi di grande at­tualità che messi insie­me diventano un problema delicatissimo.  Il filosofo Roberto Casati (della Scuola Normale Superiore di Parigi) non è un 'anti-digitale', ma afferma che «non si può pensare di introdurre l’uso dell’iPad nelle scuole senza sperimentazione e senza valutazione: non è serio».
14 Giugno 2013
Il libro, la scuola e l’iPad. Tre temi di grande at­tualità che messi insie­me diventano un problema delicatissimo. Anzi, «un territorio in cui vale la pena di utilizzare il principio di precauzione. Tanto più che i primi studi sul campo, ef­fettuati nei Paesi dove il ta­blet è già stato introdotto, non forniscono risultati propriamente positivi». Il filosofo Roberto Casati è direttore di ricerca alla Scuola Normale Superiore di Parigi. Lui per primo tie­ne a precisare di non essere un 'anti-digitale', ma di essere favorevole alle nuo­ve tecnologie. Lo ricorda anche nel suo ultimo libro, edito da Laterza, Contro il colonialismo digitale. Istru­zioni per continuare a leg­gere (pp. 130, euro 15).
Però, sottolinea, «non si può pensare di introdurre l’uso dell’iPad nelle scuole senza sperimentazione e senza valutazione: non è serio. Perché si vuole fare adesso con l’iPad ciò che non si è mai fatto prima?».

La domanda se l’è fatta lei. E per risposta viene da pensare a ragioni com­merciali.
«Nelle motivazioni per il Decreto Sviluppo il mini­stro Profumo sottolinea che si tratta di un settore che è arretrato e si deve svi­luppare. Mi sembra che il riferimento commerciale non sia per nulla velato. C’è anzi una forte richiesta in questa direzione».

Lei ritiene che l’iPad a scuola sia diseducativo?
«Il primo problema non è che vengano introdotti og­getti che si dice siano edu­cativi e utili, ma che lo si faccia senza un progetto e­ducativo. Senza considera­re che quando si dice iPad ci si indirizza su una marca precisa. E l’iPad è il termi­nale di una smisurata cate­na commerciale. I tablet sono oggetti commerciali. Ed è in qualche modo stra­vagante che si vogliano in­trodurre a tutti i costi og­getti che sono stati pensati per essere la vetrina di un gigantesco negozio che vende contenuti».

E le «app» si pagano.
«Si pagano e quindi ci sarà chi ha maggiori disponibi­lità e potrà averne più di al­tri. E questo è di per sé un problema».

E poi, dai dati che illustra nel libro, si evince che l’in­troduzione del tablet non porta a migliori risultati di apprendimento.
«Sono dati inquietanti. I miglioramenti nei risultati scolastici, quando ci sono, si hanno solo per quegli studenti che già leggono molti libri e hanno una a­deguata preparazione alla lettura. Negli altri casi si re­gistrano peggioramenti. Da un’analisi di Marco Gui della Bicocca emerge chia­ramente che i risultati sco­lastici migliorano all’inizio, poi, più l’uso delle nuove tecnologie cresce, più di­minuiscono i vantaggi».

Qual è il motivo?
«È nel fatto che le nuove tecnologie creano disper­sione e non facilitano l’ap­prendimento. Quelli che le vogliono introdurre a tutti i costi nella scuola (io li chiamo i colonialisti del di­gitale) sostengono che i na­tivi digitali sono già capaci di fare multitasking. Ma si tratta di una vera fandonia. Il nostro cervello è in grado di fare solo una cosa alla volta in maniera cosciente e fruttuosa. Passare con frequenza da un argomen­to (task) all’altro è molto costoso in termini di mino­re apprendimento».

L’esatto contrario di quello che dovrebbe essere il compito primario della scuola.
«Se la scuola servisse solo ad acquisire informazioni sarebbe praticamente inu­tile. Il vero valore aggiunto della scuola è di insegnare a formarsi e a migliorare un nostro modo di lavora­re, di focalizzare l’attenzio­ne sulle cose che contano e di rendere utile le nozioni che abbiamo appreso. E in questo la scuola potrebbe fare molto di più».

Si riferisce a qualcosa in particolare?
«La necessità di imparare a maturare un metodo di studio efficace per la nostra formazione implica che a dover essere valorizzati so­no gli insegnanti, non le tecnologie. In questo senso sarebbe più produttivo in­vestire i soldi dei tablet per valorizzare e migliorare la professionalità del corpo docente. E poi c’è un setto­re essenziale che è quello della lettura».

Il problema di sempre.
«Perché è essenziale che la scuola insegni a compren­dere e a elaborare testi complessi. Non quelli di 140 caratteri dei tweet o delle poche righe delle no­tizie su internet. Per lo stes­so futuro della nostra de­mocrazia è necessario creare nei giovani la capa­cità di lettura approfondita, altrimenti la gran parte del nostro futuro corpo eletto­rale resterà nell’incapacità di formarsi un’opinione consapevole e autonoma. In questo la scuola sta sba­gliando perché considera la lettura una cosa da fare a casa. Ma le indagini dicono che la grande maggioranza di coloro che leggono a ca­sa sono figli di genitori che leggono molto, in partico­lare la madre. È l’aristocra­zia della lettura. Per non di­re del voto on-line».

Il voto on-line?
«C’è chi lo propone come una conquista della demo­crazia, ma il voto fatto nel privato di un’abitazione o di un ufficio può diventare il trionfo del condiziona­mento. Pensiamo solo al padre di famiglia o al ca­poufficio che impongono le loro scelte...».

Insomma: sì alle nuove tecnologie ma con intelli­genza e ponderazione?
«La tecnologia digitale è es­senziale. È una grande evo­luzione. Ma in questo mo­mento i colonialisti del di­gitale sono alla ricerca di tutte le nostre risorse men­tali disponibili per sfruttare commercialmente nuovi spazi del nostro cervello. Forse è arrivato il momen­to in cui è necessaria la ste­sura di un 'manifesto per la difesa della nostra vita mentale', così come negli anni ’70 il Club di Roma fe­ce il Manifesto sui limiti dello sviluppo, sostenendo che il pianeta ha dei limiti che non possono essere va­licati. Ecco, ogni cosa che cerca di erodere le nostre risorse mentali dovrebbe essere negoziata».

 
(Roberto I. Zanini)