UFFICIO NAZIONALE PER LE COMUNICAZIONI SOCIALI
DELLA CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA

“Testimoni digitali”: la sfida continua

A due anni dal grande convegno nazionale che si concluse insieme a Benedetto XVI nell'aula Paolo VI gremita, mons. Pompili interpellato da Avvenire lancia uno sguardo di sintesi su quel che è stato fatto e su ciò cui occorre ancora porre mano perché la Chiesa possa "prendere il largo nel mare digitale", senza timori.
23 Aprile 2012
«Senza timori vogliamo prendere il largo nel mare digitale, affron­tando la navigazione aperta con la stessa passione che da duemila anni go­verna la barca della Chiesa». Con questa con­segna, esattamente due anni fa, i parteci­panti al convegno nazionale «Testimoni di­gitali » lasciarono l’Aula Paolo VI in Vaticano dopo aver ascoltato le parole con le quali Benedetto XVI aveva appena ricordato co­me «più che per le risorse tecniche, pur ne­cessarie, vogliamo qualificarci abitando anche questo universo con un cuore credente, che contribuisca a da­re un’anima all’inin­terrotto flusso comu­nicativo della rete». I due anni trascorsi han­no visto un lavorìo dif­fuso – tra Cei, diocesi, parrocchie, animatori – per far camminare quelle indicazioni del Papa. Con monsignor Domenico Pompili, direttore dell’Ufficio na­zionale per le comunicazioni sociali e tra i protagonisti di «Testimoni digitali», è tem­po di lanciare uno sguardo di sintesi su quel che è stato fatto, e su ciò cui occorre ancora porre mano. «È stato proprio lo scarto tra consapevolezza e prassi lo scopo di 'Testi­moni digitali'. Se infatti la consapevolezza del ruolo strategico del sistema dei media si è accresciuta – spiega Pompili –, la prassi di tante realtà ecclesiali è rimasta la stessa. Nel frattempo però il cambiamento sotto la pres­sione del web si è fatto così veloce e globa­le che non era più possibile far finta di nien­te. Perfino i bambini sono inseparabili dal cellulare e navigano con disinvoltura. Biso­gnava fare i conti con questa novità che fi­no a dieci anni fa non era così pervasiva».

Il Papa parlò di 'volti' da riscoprire, uno spunto che si sta confermando di estrema pertinenza rispetto all’evoluzione dei media. Se questo è certamente vero per la comunicazione 'sociale', nel­la comunità ecclesiale si sono visti frutti di quella indicazione di Benedetto XVI?
Dicono che Benedetto XVI scri­va i suoi testi a matita. Al con­tempo il suo magistero intorno ai nuovi linguaggi si è fatto ri­corrente ed esigente, spingen­dosi fino ad interpretare la Re­te come una sorta di cortile dei gentili dove «fare spazio anche a coloro per i quali Dio è anco­ra uno sconosciuto». Il Papa insomma ha ben chiara la svolta dei social network quan­do ricorda che «il compito di ogni credente che opera nei media è quello di spianare la strada a nuovi incontri, offrendo agli uomi­ni che vivono questo tempo digitale i segni necessari per riconoscere il Signore». Sotto l’impulso del suo pensiero è cresciuta in tan­ti la convinzione di «abitare» questo spazio virtuale, non in contrapposizione a quello reale, ma a integrazione e a espansione del­lo stesso. Specie oggi che il territorio geo­grafico si è andato dissolvendo e bisogna ri­trovare la strada per ritessere rapporti e ri­costruire reti di relazione.

Dopo il convegno nazionale, lei ha incon­trato gli uffici diocesani delle comunica­zioni in tutta Italia. Cos’ha verificato in que­sto lungo viaggio?
C’è un discreto fermento in giro, nonostan­te la crisi economica abbia raffreddato qual­che entusiasmo. Anche sabato 21 aprile a Sa­vona incontrando la redazione del Letimbro che festeggia i 120 anni ho toccato con ma­no che la Chiesa può abitare la Rete proprio perché è radicata fortemente in un territo­rio e riesce a smaterializzarsi proprio in virtù della forza dei suoi legami quotidiani. E le e­sperienze – ripensando al giro fatto per l’I­talia insieme con don Ivan Maffeis – sono davvero differenti. Si va dalla parrocchia di Mistretta in Sicilia che gestisce un piccolo network parrocchiale ( Tv, radio e giornale) a situazioni diocesane come quelle di Bre­scia o di Rimini dove siamo di fronte a del­le «case della comunicazione» con una strut­tura ben coordinata tra i diversi media ( TV, radio, giornale, web).

Quali segni più promettenti scorge nelle e­sperienze di 'base'? E quali sono i limiti e i ritardi più ostinati?
I segni più promettenti sono l’investimen­to sulle persone. Se si scommette sulla for­mazione degli animatori della comunica­zione e della cultura ritenendoli necessari non meno che i catechisti o gli operatori del­la Caritas si è sulla strada di un reale cam­biamento. Naturalmente non basta che gli animatori siano attrezzati se poi le comu­nità non li accolgono, cioè non li valorizza­no, mettendoli in condizione di poter con­tribuire a far crescere il livello e la qualità della comunicazione dentro e fuori la Chie­sa.

Tecnologie, soluzioni e servizi continuano a evolversi, a crescente velocità. Come può la Chiesa, che ha un passo differente, se­guire questa evoluzione così rapida? A qua­li sfide deve attrezzarsi a rispondere?
Non mi pare che la Chiesa abbia un passo differente rispetto alla velocità delle nuove tecnologie. Rispetto ad altri mondi cultura­li semmai la Chiesa ha mostrato una spic­cata sensibilità. Forse proprio la sua espe­rienza plurisecolare l’ha resa duttile e ver­satile, consapevole che il linguaggio non è un mezzo ma l’ambiente nel quale vivere. Quello che, non a caso, i vescovi italiani han­no definito nei loro Orientamenti decenna­li un «nuovo contesto esistenziale».