UFFICIO NAZIONALE PER LE COMUNICAZIONI SOCIALI
DELLA CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA

Cinema cristiano, questione di cuore

Barbara Nicolosi, ex reli­giosa della Figlie di San Paolo passata a lavorare da laica nel mondo del cinema, è diventata un punto di riferimento per chi cerca di coniugare fede e arte visive negli U­sa. Avvenire ha raccolto, proprio su questo tema, le sue stimolanti riflessioni.
15 Gennaio 2014

Dal “convento” a Hollywood. È il salto che ha fatto Barbara Nicolosi, per nove anni reli­giosa della Figlie di San Paolo, poi passata a lavorare da laica nel mondo del cinema e diventata un punto di riferimento per chi cerca di coniugare fede e arte visive negli U­sa. Sceneggiatrice di successo, fondatrice dei “Galileo studios” vicino a Los Angeles, di “Act One”, so­cietà che si occupa di formare professionisti per il cine­ma americano, di “Catharsis”, agenzia di consulenza per produttori e registi, docente universitaria e molto altro, Nicolosi pochi giorni fa ha tenuto una serie di conferen­ze alla Benedictine University vicino a Chicago. Una si in­titolava: «Perché i pagani fanno film cristiani più belli».

Partiamo da questo titolo, che mi sembra eloquente…
«La prima cosa da chiarire, per dipanare la provocazio­ne, è che non esistono film cristiani, così come non e­siste una pizza cristiana, o una moto cristiana. Una ca­tegoria utile è piuttosto quel­la di 'arte sa­cra', da riferir­si a ogni pro­getto, commis­sionato dalla Chiesa o no, a fini liturgici o catechetici. I film non pos­sono ricadere in questa cate­goria, perché destinati per natura a un pubblico vasto. Un film fatto da cristiani dovrebbe lavorare a un livello teologico per i cre­denti, ma può e deve funzionare con un pubblico laico su un piano artistico e narrativo. Un film è tanto più 'cri­stiano' quanto è capace di avere un impatto su un pub­blico non cristiano. Per fare degli esempi citerei Un uo­mo per tutte le stagioni di Fred Zimmerman, del 1966, o La passione di Giovanna d’Arco , film muto del 1928 di­retto Carl Theodor Dreyer. O in letteratura i racconti di Flannery O’Connor. Il limite della cinematografia dei cristiani è che troppo spesso è semplicemente brutta. Riflette quello che è successo nella Chiesa nel rapporto tra arte e fede, dove la ricerca di 'nuove epifanie della bellezza', per dirla con le parole di Giovanni Paolo II, è stata sacrificata alla sciatteria e al culto del banale. I 'pa­gani' che privilegiando il talento perseguono la ricerca del bello, realizzano inevitabilmente opere superiori».

Com’è il lavoro nell’ambiente hollywoodiano? Si scon­tra con pregiudizi o ostilità?
«Hollywood non è tanto anti-cristiana, quanto anti-cat­tiva cinematografia. E il modo per farsi sentire in un am­bito del genere, e nella cultura popolare in generale, è di essere talmente bravi da non poter essere ignorati».

Alcuni esempi di film con un messaggio cristiano ben riusciti?
«Fatti da cristiani negli ultimi dieci anni ce ne sono mol­to pochi. Dove c’è una 'buona intenzione' la storia ge­neralmente fallisce. La Passione di Cristo è stata un’ec­cezione, ma Mel Gibson non ha girato film per la Chie­sa, ha fatto piuttosto un atto di penitenza per i propri pec­cati. Alcuni ottimi film fatti da non credenti che veicola­no messaggi cristiani sono L’ospite inatteso di Thomas McCarthy, Lars e una ragazza tutta sua di Craig Gille­spie, e Juno di Jason Reitman, tutti e tre del 2007, oppu­re Le vite degli altri di Florian Henckel von Donnersmarck del 2006, e il più recente Uomini di Dio di Xavier Beau­vois, 2010, sui monaci di Tibhirine. E quasi tutto quello che è stato realizzato dalla Pixar, un esempio di eccellenza abbinata a temi profondi, di portata universale».

Anche “Gran Torino” del laicissimo Clint Eastwood è sta­to letto come un film dal messaggio cristiano: nessuno ha un amore più grande di chi dà la vita per i propri amici.
«Gran Torino è un film robusto e Eastwood ha voluto fa­re del personaggio principale una figura cristologica, un archetipo ben presente nella tradizione hollywoodiana».

Ricche case di produzione, talento, fiducia in se stessi: cosa ci manca di più?
«Manca una comprensione adeguata della natura e del po­tenziale della narrazione attraverso le arti visive. Tra le pri­me venti università al mondo per il cinema non c’è una cat­tolica. Bisogna lavorare con figure di talento, indipenden­temente dal loro orientamento religioso. Troppo spesso ho visto cristiani ingaggiare cattivi attori, sceneggiatori o registi solo per il fatto di essere dei credenti. Si finisce spes­so con film quasi orribili. La maggioranza dei ricchi be­nefattori dona soldi per le opere di carità della Chiesa o per l’educazione in generale. Bisogna convincerli a investire risorse anche nelle opere d’arte. Abbiamo perso il valore di essere 'patroni delle arti' come è stata la Chiesa in passato».

Meglio essere espliciti riguardo Dio e la fede – vedi “La Passione di Cristo” di Mel Gibson – op­pure no?
«Servono parabole per la gente del no­stro tempo che abbiano u­na serie di caratteristiche che aveva già individua­to Aristotele nella Poe­tica. Le pa­rabole efficaci non hanno bisogno di nominare Dio, pro­prio come quelle di Gesù. Dico sempre ai miei studenti: la storia basta, non c’è bisogno di allegare un’omelia. Abbia­mo bisogno di parabole scritte da persone con il cuore pie­no di vita e capaci di portare negli altri ispirazione e com­punzione. O per dirla con Aristotele, la società ha bisogno di storie che generino esperienze di catarsi, di compassio­ne e di paura del male. Gli studios di Hollywood sono con­trollati da megacorporation a cui interessano film che ven­dano. Questo è il loro ultimo parametro di riferimento. C’è spazio per una nuova generazione di professionisti in gra­do di raccontare storie guardando ai principi classici della narrazione e di abbinare il tutto alle potenzialità delle nuo­ve tecnologie».

I cristiani hanno limiti dal punto di vista etico – scene di nudo, la sessualità in generale, il linguaggio, l’approccio alla violenza ecc. –: partono svantaggiati?
«Non si può avere una buona storia senza quella che chiamo un’alta posta in gioco. Un’alta posta in gioco vuol dire per esempio aver di mezzo la morte. E la mor­te più 'profonda' che un uomo sperimenta viene dal peccato: la morte della capa­cità di amare, del­l’istinto a pren­dersi cura degli altri, dell’abilità a vedere e penetra­re la realtà. Perciò non si può toglie­re il peccato da u­na buona narra­zione. Quello che i cristiani posso­no dimostrare è come parlare del peccato senza farlo diventare un’occasione di peccato per il pubblico. E’ ciò che fa la Bibbia con le sue storie ad alto tasso di drammaticità - adulteri, omicidi, inganni, tradimenti - ma mai narrate in modo da far violenza sul lettore. Una moderna eresia nella Chiesa di oggi è l’im­pulso a essere innocui. Va bene essere prudenti, ma spes­so sembriamo degli stoppini bagnati. Siamo così attenti a essere gentili e non-offensivi che alla fine non diciamo nulla che valga la pena di stare a sentire. Dovremmo es­sere meno melliflui e più duri».