UFFICIO NAZIONALE PER LE COMUNICAZIONI SOCIALI
DELLA CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA

Ma l'uomo vince per distacco sul suo “doppio”

E' ormai dalla fine degli anni Ottanta che gli "avatar" si aggirano in Internet e il loro uso è sempre più comune nei videogiochi, nelle chat, in «Second Life» e così via. Ma il cammino verso la perfezione di questi speciosi alter-ego è ancora lungo...
21 Ottobre 2010
In attesa che i volenterosi gnomi della genetica ci provvedano di cloni da inviare qua e là all’occorrenza come nostri ambasciatori plenipotenziari (e magari, grazie ai cloni dei cloni, ci illudano di un’asintotica immortalità), gli informatici ci hanno regalato l’«avatar», nostro simulacro digitale che, introdotto nell’infospazio di Internet, si muove e parla come un essere umano, seguendo i dettami e imitando lo stile del titolare. Avatar è parola sanscrita, che significa «disceso», e nella religione induista designa l’incarnazione di un dio (di solito Vishnu) in un corpo umano o animale al fine, per esempio, di opporsi alle forze demoniache e al declino della giustizia: gli avatar sono intermediari tra l’essere supremo e i mortali. Di recente il termine è divenuto popolare grazie all’omonimo film di James Cameron, in cui l’avatar è un corpo sintetico, prodotto da una manipolazione che mescola il patrimonio genetico di un uomo con quello del popolo alieno dei Na’vi. Nel suo avatar l’uomo può «discendere», cioè incarnarsi, quando il suo corpo originale è preda di un coma profondo: è un trapianto non di corpo, bensì di mente, o di spirito. Tornando dal fantastico cinematografico al reale, o meglio al virtuale, è ormai dalla fine degli anni Ottanta che gli avatar si aggirano in Internet e il loro uso è sempre più comune nei videogiochi, nelle chat, in «Second Life» e così via. Ma il cammino verso la perfezione di questi speciosi alter-ego è ancora lungo: il difetto più cospicuo è la loro goffaggine, la rozzezza del linguaggio corporeo, che negli umani è invece raffinatissimo e accompagna sempre l’eloquio, tanto che, per un bravo osservatore, gestualità, postura, espressione del volto, tono della voce e così via sono spesso più significativi delle parole. Gli avatar, insomma, sono ancora maldestri pupazzi che tentano un’impacciata imitazione degli uomini, un po’ come accade per i robot, che ne sono, in un certo senso, la controparte materiale.
È dal confronto tra noi e i robot o gli avatar, tra le nostre e le loro capacità che ci rendiamo meglio conto, per somiglianza e differenza, di quello che noi siamo e di ciò che riusciamo a fare. Ora Sergey Levine e Vladen Koltun dell’università di Stanford in California, sono ricorsi a tecniche cinematografiche per tradurre in immagini digitali i movimenti compiuti da un attore mentre parla, creando un software che associa il linguaggio del corpo alle parole, o meglio alla prosodia: intonazione, ritmo, durata, accento, tono, lunghezza delle sillabe (non si tratta dunque del significato delle parole). Le immagini sono usate per addestrare l’avatar, insegnandogli ad associare la prosodia dell’attore con la velocità, l’ampiezza e la direzione dei suoi gesti.
L’intento è quello di rendere più naturale la gestualità dell’avatar, ma c’è da chiedersi se, sfruttando la gestualità esperta ma fors’anche stereotipata di un attore, non si corra il rischio di allontanarsi dal linguaggio corporeo medio delle persone ordinarie non più per difetto ma per eccesso.