UFFICIO NAZIONALE PER LE COMUNICAZIONI SOCIALI
DELLA CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA

Metti il Louvre in prima serata

Patrick de Carolis, già presidente e direttore generale di France Télévisions, è uno dei relatori nella seduta i­naugurale dell’assem­blea plenaria del Pon­tificio Consiglio della Cultura, che si apre il 10 novembre. Avvenire ha anticipato una parte del suo interessante intervento...
10 Novembre 2010
Patrick de Carolis, già presidente e direttore generale di France Télévisions, è uno dei relatori nella seduta i­naugurale dell’assem­blea plenaria del Pon­tificio Consiglio della Cultura, oggi alle 16,30 in Campidoglio; con lui (la cui relazio­ne pubblichiamo per stralci in questa pagi­na) parleranno il cri­tico televisivo Aldo Grasso (foto a destra) e il gesuita padre Lloyd Baugh. Da domani i lavori prose­guiranno sul tema «Cultura della comunicazione e nuovi linguag­gi »; dopo l’introduzione del pre­sidente monsignor Gianfranco Ravasi (foto a si­nistra), interven­gono il vescovo di Regensburg Gerhard Ludwig Muller e il reve­rendo Robert Bar­ron. Venerdì è la volta di Enzo Bianchi, fondato­re di Bose, e dell’amministratore delegato di Microsoft Italia Pie­tro Scott Jovane. Le conclusioni dei lavori sono previste nella mat­tinata di sabato, con l’udienza di Benedetto XVI.
 
Metti il Louvre in prima serata...
Vorrei semplicemente farvi partecipi di un’esperienza personale: quella di un uomo di televisione che in tutto il suo percorso ha cercato di u­sare un mezzo di comunicazio­ne di massa per consentire al pubblico più vasto e popolare possibile di entrare nel sancta sanctorum della cultura mon­diale. Perché, se mi consentite di parafrasare ciò che scriveva Al­bert Camus nel suo Discorso di Svezia, «contrariamente al pre­giudizio corrente, gli uomini di cultura e gli artisti non hanno diritto alla solitudine, poiché l’arte – scrive Camus, e consen­titemi di aggiungere: la cultura – non possono essere monologhi». Spezzare il pregiudizio denun­ciato da Albert Camus e fare in modo che ognuno potesse in­staurare un dialogo con la cultu­ra non era un’idea scontata nel mondo televisivo. Tuttavia è sta­ta quest’idea a presiedere alla creazione del programma cultu­rale Des Racines e des Ailes («Ra­dici e ali») e ad ispirare tutta la politica che ho promosso alla guida del gruppo France Télévi­sions negli ultimi cinque anni.
Bisogna dire che in Francia «la cultura» è anzitutto «il libro» e che ogni tentativo di far posto alla cultura sugli schermi televi­sivi scatena immediatamente lo scetticismo, se non addirittura l’ironia. A tal proposito ho due aneddoti che illustrano piutto­sto bene quest’atteggiamento.
Quando, 13 anni fa, ho proposto di chiamare il mio nuovo pro­gramma «Radici e ali», ispiran­domi a un bellissimo poema sanscrito per il quale la cosa più bella che si possa regalare ai figli sono appunto le radici e le ali, il direttore dei programmi dell’e­poca alzò le braccia al cielo e­sclamando: «Ma non dirlo nem­meno per scherzo! Non è un ti­tolo da televisione, è troppo let­terario… ». In seguito, una volta accettato il titolo del program­ma, gli proposi di piazzare le te­lecamere al museo del Louvre per la prima puntata; lui mi guardò con aria allarmata e mi disse: «Le riprese in un museo? In prima serata? Quando ci sono più telespettatori... È una follia e non funzionerà mai». Non solo la trasmissione ha funzionato, ma esiste ancora, 13 anni dopo, e totalizza ogni volta diversi mi­lioni di telespettatori. In effetti, sono fermamente convinto che si possano guidare fino alle vette del pensiero e della creatività uomini e donne che non sem­bravano destinati a scalarle. Per farlo però occorre: 1) parlare lo­ro 2) accompagnarli 3) guidarli e stabilire un rapporto di fiducia con loro. Potete capire, credo, ciò che sto per confidarvi. Ogni volta che prego, chiedo a Dio u­na sola cosa: che illumini la mia strada perché possa procedere nella sua luce. Ma credo che ognuno di noi debba, a sua volta e secondo le sue possibilità, illumina­re la strada di coloro che – per qualunque motivo – vedono peggio di noi e camminano a tentoni.
Così, nel posto che mi è stato assegnato e con i mezzi che il mestiere mi metteva a disposizione, ho cer­cato di illuminare la strada di milioni di telespettatori sui sen­tieri della conoscenza, della cul­tura e della bellezza. L’aspirazio­ne alla cultura e all’emozione ar­tistica, a mio parere, sono essen­ziali perché manifestano in mo­do sensibile la sete di trascen­denza che esiste in tutti gli uo­mini. André Malraux diceva in sostanza: «La letteratura, come ogni forma d’arte, è fatta per dirci che la vita (così com’è) non basta…». A questa aspirazione deve poter rispondere anche un mezzo di comunica­zione sociale come la te­levisione, che troppo spesso lusinga i nostri i­stinti più bassi. Nel fare ciò, salva l’onore e dimo­stra la sua utilità sociale. Ma la televisione non è responsabile di tutti i mali perché troppo spesso la cultura, in Francia in partico­lare, è la riserva di caccia di un’élite educata a rivolgersi sol­tanto a sé stessa e a quelli che Stendhal avrebbe designato con l’anglismo di happy few, i «pochi eletti». Ebbene: il mio ruolo è stato convincere quegli uomini e quelle donne di cultura ad apri­re i luoghi che custodivano, ma anche aiutarli a condividere i te­sori di scienza e di umanità che possedevano. Per questo ho chiesto loro di sbarazzarsi del senso di eccellenza, per non dire di superiorità, che talvolta di­mostravano. Ho chiesto loro di abbandonare il linguaggio tecni­co della specializzazione o della professione e ho cercato di con­vincerli a non pensare al giudi­zio dei colleghi, per rivolgersi u­nicamente al telespettatore. Pro­prio come gli abiti che indossia­mo tradiscono uno status socia­le e creano immediatamente u­na distanza, le parole talvolta possono trasformarsi in unifor­mi del pensiero. Così tutti coloro che sono intervenuti alle mie trasmissioni hanno accettato di parlare in maniera appropriata ma semplice, rendendo il mes­saggio direttamente assimilabile dal pubblico. Per far passare un messaggio complesso in televi­sione conosco una sola regola: partire sempre dall’umano, per­ché solo ciò che è umano può essere direttamente condiviso.
Quest’affermazione estrapolata dal contesto può apparire vuota e perentoria, ma è estremamen­te concreta. In realtà, significa raccontare storie e permettere a ogni individuo di identificarsi o proiettarsi nell’altro. Nelle mie trasmissioni raccontavo sia per­corsi di uomini e donne vissuti nel passato, sia percorsi di uo­mini e donne in contatto conti­nuo con la bellezza del mondo e il mondo delle idee. Quando ho dovuto parlare della bellezza delle cose – che si trattas­se di una città, di un mo­numento o di un’opera d’arte – ho sempre co­struito le mie trasmissio­ni sul rapporto che gli uomini avevano con quelle cose. Se volete in­tercettare l’attenzione del pubblico e fargli os­servare il dettaglio di un’archi­tettura, lo stile di un mobile o la composizione di un quadro, do­vete subito e per prima cosa rac­contargli una storia e una storia umana. È quella che in gergo professionale chiamiamo «edi­torializzazione ». Per far ciò ho dovuto trovare degli esperti, sto­rici o artisti che sapessero rac­contare storie e avessero non so­lo la capacità di essere autentici trasmettitori ma anche la vo­lontà di farsi capire. Una volta trovato il vostro «trasmettitore di sapere», e dopo averlo convinto che la televisione non è il diavo­lo, resta da metterlo in scena.
Ciò non significa fargli recitare un ruolo che non è il suo, sareb­be ridicolo e inefficace, bensì metterlo nella condizione di ri­volgersi non a voi stessi bensì ai milioni di telespettatori che lo guardano. Così la prima regola che mi sono sempre dato è di non riprendere mai i miei «tra­smettitori di sapere» seduti in maestà dietro la cattedra. Li ho sempre ripresi in movimento mentre camminano, salgono scale, aprono porte, percorrono corridoi, sbucano in cima a una torre o in una terrazza o attra­versano giardini. Se intervistate un esperto seduto in poltrona, non riuscirete a farlo uscire dal ruolo istituzionale. Se cammina­te con lui, invece, risponderà con molta più naturalezza e semplicità. In questo modo di­venta accessibile e cade da sé il muro che la funzione, i titoli e il sapere erigevano tra lui e i tele­spettatori. Il pubblico può im­mediatamente identificarsi con lui e appropriarsi dei luoghi che custodisce, anche i più sensazio­nali. In quel momento si crea u­na relazione diretta e insostitui­bile tra telespettatore e mediato­re. A mio parere questo è l’unico modo per mostrare che ogni ar­gomento, anche il più fonda­mentale, è accessibile: perché e­sistono uomini e donne che possono consentirne l’accesso.
 
di Patrick De Carolis
(traduzione Anna Maria Brogi)